Anno 130 - Dicembre 2018

Urge insegnare la strada del perdono

Laura Galimberti

«Senza perdono e riconciliazione – è solito affermare padre Gianfranco Testa – non c’è futuro. Non è felice colui  che non ha problemi, è felice chi li sa affrontare e risolvere»

Durante la dittatura militare in Argentina è stato ingiustamente in carcere per 4 anni e 8 mesi. «Come sacerdote, ma anche come qualcuno che dava fastidio» – spiega padre Gianfranco Testa, missionario della Consolata – «ma se il proprio sacerdozio non crea conflitto in situazioni ingiuste, che senso ha?». 76 anni, missionario per 7 anni in Argentina, 7 in Nicaragua e 17 in Colombia, dal 2011 propone corsi su riconciliazione e perdono. Circa 100 quelli realizzati: 30 in America Latina, circa 60 in Italia, 2 in Albania. Inizia a sentire profondamente questa chiamata in Colombia. Poi l’esortazione di Giovanni Paolo II nella giornata mondiale della pace del 2001, dopo l’11 settembre: l’urgenza di “insegnare una pedagogia del perdono”, rompere il circolo vizioso dell’offesa e del ricordo dell’offesa, ma con un metodo.

«Si parte dalla realtà, dal fatto negativo. Non perdono il male in sé. Si tratta di passare dall’oscurità alla luce, poi scegliere il perdono non come emozione, ma in libertà e volontà perché mi fa stare meglio, sapendo che l’altro nonostante tutto è una persona e tutti abbiamo delle colpe e siamo qualcosa di più della nostra colpa».

Ciò che ostacola spesso è il vissuto emozionale, mentre agevola il desiderio di rileggere le proprie ferite verso una comprensione, liberazione e pacificazione profonda orientata a una possibile riconciliazione. «Curo me stesso, il mio spirito, star bene. Poi posso passare alla riconciliazione, pensare al mio nemico, curare la ferita con l’altro, se vuole. È come un ponte» spiega p. Gianfranco «ma ci vogliono dei piloni per sostenerlo. La memoria innanzitutto, non solo ricordare, ma assumere una posizione etica. Poi la verità vista come sincerità tra persone nella relazione. Ancora, la giustizia non da associare al castigo, ma soprattutto aiutare le persone a recuperare se stesse, restaurare la vittima e il colpevole, per restaurare la società».

Opera di misericordia attualissima in una società che vede nell’altro una minaccia, «il perdono è via che uma­nizza, insegna a vedere l’altro come compagno con cui camminare insieme, penso alle migrazioni in atto e alla paura dell’altro». Migliaia le persone intercettate. Tra queste tantissimi giovani. «Sono diverse le ferite che custodiscono: dal non sentirsi ascoltati, al sentirsi sbagliati, non accettati, improduttivi, inutili. Non sono spesso consapevoli e rischiano di girare il coltello nella piaga senza trovare via per il futuro».

L’idea nel 2013 di presentare la proposta alle scuole superiori di Torino. «Se dico che sono un missionario pensano a una catechesi e scappano? mi dicevo. Allora abbiamo inventato un nome neutro: l’Università del perdono, che oggi è un’associazione, costituitasi per dare continuità a questo percorso». La proposta è per chiunque, credenti e non.

I percorsi rivolti ai giovani, studenti delle scuole superiori, universitari, gruppi parrocchiali, scouts ora si avvalgono del contributo di altri operatori/animatori della onlus, che hanno recepito contenuti e metodo. «In collaborazione col centro servizi didattici della Provincia, area metropolitana di Torino, da cinque anni il nostro progetto costituisce una proposta ricorrente e continuativa offerta alle scuole superiori di II grado a cui aderiscono docenti e classi» spiega il prof. Antonio De Salvia, presidente della Fondazione Università del Perdono, psicologo e criminologo che per oltre 20 anni ha lavorato presso il carcere di Torino nell’accompagnamento dei detenuti verso un reinserimento alla vita sociale. «Sono oltre mille gli adolescenti, tra i 15 e i 19 anni, che hanno finora partecipato; altri 1.200, tra adolescenti e giovani di gruppi omogenei, hanno seguito percorsi o incontri di sensibilizzazione; infine ci sono diversi giovani che si sono aggregati spontaneamente. Nella nostra società sono diventati molto più labili i punti di riferimento e ineliminabili i conflitti e le contrapposizioni tra persone, gruppi ed etnie. Genitori e insegnanti si sono reciprocamente delegittimati; si è affermata la tendenza predominante e univoca a giustificare ogni situazione di disagio personale e sociale con l’incidenza di fattori economici, ignorando e negando ogni altra istanza psicologica, spirituale, trascendente».

Attraverso la guida, l’orientamento dell’animatore e gli ausili didattici offerti (letture, giochi di ruolo, analisi situazionali di fatti di cronaca, racconti autobiografici) i ragazzi sono sollecitati a esprimere opinioni, a valutare vantaggi e svantaggi, a ponderare scelte, a riflettere, ad acquisire modelli di comportamento positivi per se stessi e per gli altri. «Recepiscono la novità di questa concezione del perdono che consiste nel prendersi cura di sé e, nel fare un “dono” a se stessi, evitando di reagire e di far perdurare situazioni di offese e di conflitto».

Il percorso si compone di 3 incontri in aula della durata di 2 ore, ma è una proposta flessibile: può aumentare il numero delle ore, diversificarsi la trattazione dei temi. Il percorso esige e si realizza come rapporto interpersonale interattivo tra studenti e animatore. «L’insegnante, con cui sono stati concordati numero ore, calendario incontri, livello di trattazione degli argomenti, è presente in aula, partecipa direttamente intervenendo per coinvolgere gli allievi, per richiedere la trattazione di argomenti motivati dalle dinamiche interne nella classe – manifestazioni di bullismo, consumo di sostanze stupefacenti o alcol, ludopatia – per rilevare alcune attinenze con le materie di studio». I temi sono impostati come ricerca comune, esistenzialmente sperimentabile, da ponderare secondo uno schema che evidenzi oggettivamente guadagni e perdite. Anche la scelta e la decisione di utilizzare la risorsa umana del perdono non può non essere libera e autonoma, responsabile, motivata, vantaggiosa per il proprio benessere e per il benessere degli altri.

«È sempre più frequente e diretta una domanda da parte dei ragazzi: “Ma tu ci vuoi bene?”. È la rilevazione di un bisogno e di una carenza che indica la ricerca di una persona affidabile capace di porsi in posizione di ascolto e di reciprocità, e capace di fare proposte concrete, coerenti e credibili. Imparare a usare la risorsa del perdono consente alla persona offesa di evitare di trasformare la rabbia in ostilità permanente. Il risultato non solo è positivo e benefico individualmente, ma anche socialmente perché si riduce il numero delle offese in circolazione».

«Senza perdono e riconciliazione – conclude padre Gianfranco – non c’è futuro. Non è felice chi non ha problemi, è felice chi li sa affrontare e risolvere».


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