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Dove porta la croce?

Elide Siviero

Si sente spesso dire, quando si parla di una situazione dolorosa, difficile, lunga e travagliata, che è stata “una vera via crucis”. Con questo, ovviamente, si fa riferimento al percorso verso la Croce di Gesù Cristo. Ma il problema è che con questa affermazione quello che emerge è che al centro di questa Via Crucis ci sia solo il dolore.

Pare talmente centrale questa cosa che alla fine non importa di che tipo o natura sia quella sofferenza: è una Via crucis... e queste pseudo vie della Croce oscurano il significato sia della Passione del Signore che del pio esercizio della devozione cristiana. Infatti, nella Passione di nostro Signore «ogni sofferenza di Gesù è seme di gioia futura per l’umanità; e ogni scherno è premessa di gloria.

Ogni incontro di Gesù su quella via di dolore è occasione per un supremo insegnamento, per un ultimo sguardo, per una estrema offerta di riconciliazione e di pace». Insomma, al centro non c’è quanto Cristo ha sofferto, ma l’amore immenso che lo ha portato ad accettare tutto per noi. Ogni tanto si trovano proposte di Via crucis che contengono una serie di disgrazie capitate alle persone, quasi per esibire davanti a Dio i nostri patimenti che sono “tanto simili ai suoi”.

Ma questo è davvero fuorviante: noi non possiamo paragonare il nostro dolore al suo, perché non si tratta di quanto sangue sia stato versato, di quante torture siano state perpetrate a Cristo, ma del suo amore che salva il mondo. Nella Liturgia del Venerdì santo, infatti, quando celebriamo la Passione di nostro Signore, abbiamo la Preghiera universale nella quale ci sono dieci invocazioni che abbracciano tutte le realtà: dal Santo Padre ai non credenti.

Ci viene detto in questo modo che il sangue di Cristo raggiunge ogni uomo. Va a irrorare, come in un giardino, tutto l’universo, tutti i popoli, le genti, le culture, come se nessuno potesse essere fuori da quel sangue. Perché è il flusso dell’amore che raggiunge anche chi non lo sa. Mi colpisce quanto aveva scritto il Cardinal Ratzinger nella Via Crucis del 2005: «Il Signore interpreta tutto il suo percorso terreno come il percorso del chicco di grano che soltanto attraverso la morte arriva a produrre frutto.

Egli interpreta la sua vita terrena, la sua morte e la sua risurrezione in direzione della santissima Eucaristia, nella quale è riassunto tutto il suo mistero. Siccome egli ha vissuto la sua morte come offerta di sé, come atto d’amore, il suo corpo è stato trasformato nella nuova vita della risurrezione. Per questo egli, il Verbo incarnato, è diventato ora il nostro nutrimento che porta alla vera vita, alla vita eterna… La preghiera della Via crucis si può intendere come una via che porta alla comunione profonda, spirituale con Gesù, senza la quale la comunione sacramentale rimarrebbe vuota.

A questa visione si contrappone una comprensione puramente sentimentale della Via crucis, del cui pericolo il Signore, nella stazione VIII, avverte le donne di Gerusalemme che piangono su di lui. Il semplice sentimento non basta; la Via crucis dovrebbe essere una scuola di fede, di quella fede che, per sua natura, “opera per mezzo della carità” (Gal 5, 6)».

Restituiamo allora alla via Crucis il suo vero significato, non svalutiamo questo momento con uno sterile piagnisteo e facciamo nostra la preghiera di Ratzinger scritta in questo testo: «La croce – l’offerta di noi stessi – ci pesa molto. Ma sulla tua Via crucis tu hai portato anche la mia croce, e non l’hai portata in un qualche momento del passato, perché il tuo amore è contemporaneo alla mia vita.

La porti oggi con me e per me, e, in modo mirabile, vuoi che adesso anch’io, come allora Simone di Cirene, porti con te la tua croce e, accompagnandoti, mi ponga con te a servizio della redenzione del mondo».