Anno 131 - Luglio/Agosto 2019Scopri di più

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Dico a te: «Alzati!»

Gabriele Pedrina

L’estate scorsa ho fatto una cosa pazzesca. No, dai, non era così pazza, però strana forte sì. Una di quelle cose che quando te la dicono la prima volta o il pensiero che ti schizza in testa è: “Ma perché devo andarmi a far del male?” oppure capisci subito che è esattamente ciò che stavi cercando. Ve la descrivo un po’ alla volta così non vi spaventate. Intanto si è trattato di un cammino, come quello di Santiago di Compostela, fatto di giornate dove si macina strada a piedi. In tutto abbiamo fatto poco più di 150 chilometri in nove giorni.

La particolarità è che non c’era una meta d’arrivo, un santuario o una bella spiaggia. Si è fatto un anello e si è arrivati lì dove si era partiti. Dicono che un posto vale l’altro. Noi eravamo nell’altopiano della Murgia in Puglia. Okkei fino a qui? Eravamo in dodici: alcuni si conoscevano, altri non conoscevano nessuno; alcuni l’avevano già fatto, altri non si ricordavano più quante volte erano già partiti. In quattro eravamo alla prima esperienza.

Di sicuro tutti eravamo pronti ad arrivare fino in fondo. C’era Lorenzo che aveva pianificato il cammino e due sacerdoti che camminavano con noi. Adesso arriva il bello. Nessuno aveva il cellulare con sé. Nessuno aveva l’orologio o altri aggeggi elettronici. E... nessuno aveva con sé denaro, ma non perché era già stato pagato tutto prima e avremmo trovato ciò che ci serviva lungo la strada.

No, ciò di cui avevamo bisogno o ce l’avevamo con noi nello zaino o dovevamo chiederlo “in regalo” alle persone. Conseguenza? Il cibo ce lo portavamo sulle spalle con tutto il resto e dovendo bastare per 9 giorni, diciamo che non ci si strafogava. E poi “no soldi, no alberghi”, ma neanche rifugi, stamberghe, ostelli: dormivamo all’aperto, senza una tenda, completamente sotto le stelle... e per fortuna la notte non ha mai piovuto. Ancora una cosa. Tutti indossavamo una tunica di cotone pesante, simile a quelle usate dai beduini nel deserto, con tanto di cappuccio. Di sicuro non passavamo inosservati e quanto al caldo... beh... vi lascio immaginare.

L’insieme ha creato un mix che ti spacca dentro. Ha fatto poltiglia di quei grumi di pensieri che mi intasavano il cervello e di qualsiasi presunzione sulla quale mi appoggiavo per stare in piedi. Ha scavato un vuoto fatto di fatica e sudore, di fame e silenzio e l’ha riempito di coccole, di sguardi, di dolcezze e paesaggi incredibili. Ha aperto spazi che da tempo non abitavo, buoni per pregare, per rivedere la mia vita e guardarmi dentro. Ho dovuto fare i conti con le mie paure e le mie certezze, che polvere, vesciche e allegria hanno ridotto malconce.

Senza orologio il tempo svelava il suo passo regolare e solenne, ogni secondo, ogni minuto scivolava nel passato consapevole della sua unicità, lasciando doni indimenticabili: la pera matura che si offre dall’albero, il pomodoro del contadino, la bottiglietta di acqua gelata della donna in tailleur, uno sguardo, un saluto, un sorriso.

Quest’esperienza si chiama Goum (“googolate” e troverete): si potrebbe definirla un’esperienza di scoutismo estremo, ma definirla non serve a nulla. È quella che è, ma, soprattutto, è quella che ti è dato di vivere. Non occorre che stuzzichi voi ragazzi, lanciandovi sfide o raccontandovi aneddoti avventurosi: se ha da essere, so che l’idea vi ha già rapito.

D’altra parte, Goum assomiglia alla parola “Kum”, che in aramaico significa “Alzati”. Gesù lo disse a una ragazzina che tutti credevano morta: lei aveva 12 anni, per il Goum ne servono almeno 18, ma la sostanza non cambia. Si tratta sempre di alzarsi, di strapazzare i fantasmi che ci imbrigliano e di vivere la vita per quello che è: bellezza.