Anno 132 - Febbraio 2020Scopri di più

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beep... beep

Don Livio Tonello, direttore

Quotidianamente assistiamo a forme di aggressività verbale. Una aggressività qualificabile non solo come maleducazione, ma che diventa insulto e perfino offesa. Col passare del tempo le volgarità sono diventate di uso comune. Interiezioni e parolacce escono facilmente dalla bocca di molti. E non solo nei momenti di rabbia o di tensione, ma nei discorsi normali.

Alla televisione e alla radio sono stati sdoganati termini un tempo indicibili. Una volta si ricorreva opportunamente ai famosi “beep” o “bip” di censura per coprire la parola inappropriata. Ora non c’è show o talk televisivo dove non si pronuncino volgarità. Vi si ricorre anche per cercare di far ridere, giocando sul doppio senso o sulle allusioni.

Ne sono investiti i settori della pubblica informazione e tutti gli strati della società. Facilitatori di questa modalità sono i social dentro i quali è facile, protetti dall’anonimato, aggredire verbalmente e gettare fango sulle persone. Se un tempo il linguaggio sguaiato era sinonimo di rozzezza, povertà umana e intellettuale, ora, al contrario, è diventato indice di modernità.

Ci ha messo del suo anche la politica producendo una violenza verbale che va oltre il confronto ideologico, per quanto duro lo si possa immaginare. Il guaio è che fa presa. È una corsa al ribasso: dal “votami perché parlo bene”, si e ̀ passati al “votami perché parlo male come te“.

Una rozza eloquenza per farsi vicino all’uomo della strada, una democratizzazione della cattiveria passata per populismo. Un’indagine recente rilevava che gli italiani sono affascinati da un linguaggio forte, convinto, deciso, che attacca l’avversario anche sul piano della vita privata.

Mi chiedo se sia solo strategia o se non sia la voce della povertà interiore. Ricordiamo la bellissima espressione dell’evangelista “la bocca parla dalla pienezza del cuore” (Mt 12,34): ciò che esce dalla bocca rivela ciò che c’è dentro, ciò che si sedimenta come pensiero, sensazione, cultura.

Pensando a sant’Antonio, del quale in questo mese ricordiamo la Lingua incorrotta (festa del 15 febbraio), ci viene ancora una volta un monito per valutare la qualità del nostro linguaggio. Sulle labbra del Santo sono fiorite espressioni di lode, parole di incoraggiamento, discorsi magistrali.

Certamente anche invettive di fuoco verso i corrotti e i violenti, ma per correggere. L’eloquenza di Antonio è l’espressione di ciò che aveva maturato ed elaborato con la propria vita. I valori ai quali aderiva risuonavano nelle vie e nelle piazze come un vangelo, cioè un lieto annuncio. È la stessa finalità di chi ricopre responsabilità educative, informative, dirigenziali, di guida: dal cuore dovrebbe uscire una nobile favella costruttiva.

Se diciamo che gli esempi trascinano, non di meno lo sono le parole. E in questo frangente storico constatiamo da una parte un basso spessore valoriale e culturale di molti discorsi che appaiono vuoti, puri flatus vocis, dall’altra il ricorso al turpiloquio per emergere. Le parole feriscono più della spada, ma quelle volgari sono l’arma di chi non ha argomenti convincenti. Di chi vi ricorre perché ha idee deboli che cerca di imporre più con l’arroganza che non per il loro valore.