Anno 130 - Dicembre 2018

Uno sguardo ai paliotti: preziosità nascoste

Alfredo Pescante

In quello della cappella del Beato Belludi, la cui arca conservò fino al 1263 il corpo di sant’Antonio, quindi il più antico, è scolpita  nel bianco marmo una croce tra due fiori dai molteplici petali

Non sono molti i fedeli e turisti che entrando nel tempio antoniano ammirano i paliotti che ne decorano gli altari. Eppure, anche a semplici opere dobbiamo regalare uno sguardo rispettoso perché patrimonio da esplorare e vera espressione artistica lungo i secoli. Questo settore dell’arte è ritenuto appannaggio di specialisti, quando invece tali lavori risultano di immediata visibilità e comprensione perché lanciano genuini messaggi di fede e devozione.

Cosa sono i paliotti e quale il loro servizio in una chiesa? Sono i rivestimenti liturgici dell’altare, di cui coprono la parte anteriore, con funzione di rilevante importanza non solo in campo decorativo, ma pure espressivo. Il nome latino “pallium” vuol dire drappo di lana, velo che poteva coprire, all’inizio, tutti e quattro i lati dell’altare, per fissarsi poi solo a quello anteriore, onde fu pure chiamato “antipendio”.

Nei primi secoli del cristianesimo tali suppellettili ecclesiastiche risultavano assai ricche, perché lo splendore s’addice a Dio. Comparse in Oriente, sant’Efrem scrive che l’imperatore Costantino regalò alla chiesa di Santa Sofia di Costantinopoli auree coperte. In Occidente l’ornamento comincia a essere impiegato nel V secolo, come testimoniano i mosaici ravennati di Sant’Apollinare e San Vitale. Poi i paliotti si diffusero in tutte le chiese, realizzati in svariati materiali su cui furono cesellati, ricamati e scolpiti, soprattutto immagini della Divinità e dei santi. Gli artisti a gara lavorarono lastre d’oro, d’avorio, d’argento, stoffe ricamate in metalli pregiati, lignei pannelli colorati e dipinti, oli su tela e cuoi dipinti. Con il Rinascimento compaiono i lavori in marmo con rilievi in bronzo e costosi intarsi marmorei per l’utilizzo di pietre dure (commessi) venute da paesi lontani, presentandoci vivaci scene religiose, decorazioni simboliche, composizioni scenografiche e architettoniche di rara bellezza.

La Basilica del Santo fa bella figura

Pur chiesa francescana, nata nel segno della povertà, la Basilica si lascia andare al vezzo di preziose opere, in particolare nei periodi rinascimentali e barocchi.

Non conosciamo con esattezza di quali foggia e materiale apparissero i primitivi altari della nostra, anche perché in documenti del XIII e XIV secolo si parla di “anchona depincta” = altare dipinto” o di semplice “altare”. Certamente quelli minori furono realizzati in materiale povero, di legno, per trasformarsi, col tempo, in lapidei, dotati anche di statue.

Quanto soffersero quelli delle otto cappelle radiali per riacquisire la dignità perduta! Nel 1618 si chiedeva ai loro patroni un restauro e un secolo dopo venivan ancora definiti “indecenti”. Vi ovviò Antonio Fasolato entro i primi quattro decenni del ’700, scolpendo dignitose opere. Nel 1895, su progetto di Camillo Boito, le cappelle vennero riportate al primitivo stile gotico, creando pure nuovi altari con lineari paliotti, opera del tagliapietre Giovanni Toninello. In particolare son da ammirare quelli delle cappelle dei Santi Leopoldo (sculture in legno dipinto), Stanislao (un angelo marmoreo in rilievo), Bonifacio (tre statue di marmo).

Opere squillanti realizzate da Donatello e dai Corberelli

Di palpitante bellezza il paliotto che Donatello scolpì entro il 1448 in pietra, marmo e bronzo, inserendovi numerosi angeli, una Pietà e i miracoli di sant’Antonio. Rimaneggiato e dismembrato nel tempo, il Boito ne radunò le opere formando l’attuale altare maggiore, consentendoci di meditar ancora su un capolavoro di fede e arte. Col Vaticano II s’inizia a celebrare su un altare mobile, rivolto verso il popolo, il cui paliotto argenteo ha scolpite le immagini dell’Immacolata e dei santi Scolastica e Benedetto.

Singolare per impatto e linguaggio quello dell’altare di San Francesco, dolcissimo nei colori e nei commessi. Opera dei Corberelli, famiglia d’origine fiorentina che s’impose a Padova e in Italia settentrionale per tre generazioni in tale lavoro specialistico, vide la mano del capostipite Pietro Paolo coi figli Antonio e Francesco nel 1676. Noti nel presentarci simbolici arabeschi di fiori, frutti e uccelli, anche in quello riproducente “san Francesco stigmatizzato” i Corberelli ci abbagliano con preziosità e vivacità, donando al marmo i requisiti d’un fantastico dipinto.

Gli altari più ricercati: Arca, Belludi, Madonna Mora e Immacolata

Come paliotto dell’altare dell’Arca funge, da fine ’300, un grande lastrone di marmo verde antico che, di elevato costo e rivestito nel ’700 di contorni dorati, sottolinea l’importanza della sepoltura del Taumaturgo.

In quello della cappella del Beato Belludi, la cui arca conservò fino al 1263 il corpo di sant’Antonio, quindi il più antico, son scolpite nel bianco marmo, al centro, una croce e ai due lati altrettanti fiori dai molteplici petali.

Nella cappella della Madonna Mora l’altare di primo ’400, in pietra gialla e dipinta, presenta un semplice e delicato paliotto formato da una croce, al centro, posata sul calice, da cui nascono volute di foglie d’acanto e ai lati due quadrilobi entro occhio inscritto in un quadrato.

Caratteristico quello cinquecentesco della Madonna dell’Immacolata (il primo sul pilastro sinistro, entrando), formato da specchiature a disegni geometrici multicolori e, al centro, l’effigie ottocentesca della Vergine raggiata da dodici stelle.

Altri paliotti presenti in Basilica son facili a leggere: della cappella del Santissimo, progettata da Ludovico Pogliaghi a inizio ’900 e i primi due, entrando a sinistra (Kolbe) e a destra (Carlo Borromeo), provenienti dalle chiese padovane di Sant’Agostino e San Prosdocimo. Ognuno, pur nella semplicità, rinserra una bellezza che incantando ci parla di Paradiso.


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