Anno 131 - Aprile 2019

Stanco di essere “tranquillo”

Arianna Prevedello

Eravamo in cinque in auto. Che saremmo stati stretti, era facile da immaginare! La speranza, assai illusoria, era che non abbondasse di capricci perché avrebbero pesato ben più del solito, visto l’affollamento. Le avevamo appena detto, al primo piagnisteo sopraggiunto, quanto sarebbe stato bello che avesse potuto dimostrarsi “tranquilla”. Magari il più spesso possibile, aggiungemmo.

«Se fossi “tranquilla”, sarebbe terribile».

Rispose proprio così. Sembrava la sentenza di un giudice giunta dopo numerose udienze. E invece lei l’aveva prodotta così, tra un singhiozzo e una lacrima, con quella lucidità che ha lo specchio appena pulito.

Me lo ricordo come fosse ieri quel Lunedì dell’Angelo. In gita con noi c’erano le cugine Annabella e Annachiara: non che gli zii si fossero sprecati nel pensare il nome con cui sarebbero state al mondo. Ci guardammo tutti un po’ di nascosto. Volevamo scoppiare a ridere, ma non lo facemmo per rispetto di lei. Aveva detto una verità, non andava banalizzata. E noi avevamo detto una bella sciocchezza a parer suo, e da quel giorno iniziai a pensarla anch’io così. A soffrire tutti quelli che mi volevano “tranquilla”. Senza contare che a scuola non pronunciai più l’aggettivo “tranquillo” per nessun mio alunno.

Calmo. Liscio. Piatto. Quieto. Pacifico. Non litigioso. Placido. Fiducioso. Sereno. Certo. Sicuro. Disteso. Pacato. Rilassato. Sereno. Spensierato. Bonario. Controllato. Mite

Il tutto alla voce “tranquillo”. Quanti modi di essere tranquilli.

Ma “tranquillo” non si può sentire. Sembra il frutto orizzontale dell’anestetico.


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