Anno 132 - Maggio 2020

Silenzio: vita che cresce

Germano Bertin

Silenzio! Ci sta. Qualche volta. Soprattutto quando lo si sceglie. Ma anche quando si fa strada dopo un tempo di eccessi: eccessi di parole, di suoni, di rumori, di emozioni, di fatiche, di corse, di preoccupazioni, di disillusioni. Se poi arriva imposto da altri, ha comunque un suono la sua voce. «Da quando la mia libertà di movimento è finita per via della peste – scrive Paolo Rumiz, bloccato a casa al tempo del Coronavirus – pensieri nuovi escono a torrenti. Pensieri da fermo.

Così tanti che devo fissarli in un quaderno. Metto a bagno i fagioli e penso. Guardo dalla finestra e prendo appunti. Impasto farina e lievito e scrivo. Un effetto del silenzio, credo». Ecco dove sono finite le parole. Ecco dove possono finire. E quel silenzio imposto, può uscire, libero e parlante, da dentro. Ed essere fissato nel piccolo diario segreto interiore dove può essere custodito gelosamente: e lí, nulla va perduto.

Di solito, il silenzio induce a creare distanze, allontanamenti e, persino, auto-isolamento. Un tentativo non efficace, talora persino maldestro, di mettere alle corde un malessere che piuttosto ci abita dentro. Un silenzio che non convince: anzi, aggiunge solo nuova separatezza ed estraneità. Per nascere c’è bisogno di incontro. Per vivere è indispensabile la prossimità. Per morire è sufficiente una carezza. Non si può vivere “senza”: ma, al contrario, è possibile vivere nell’essenza. La vita inizia con una dichiarazione d’indipendenza dipendente.

E si chiude con una dipendenza che reclama ostinatamente indipendenza. La vita comincia nel pianto e si conclude con un sospiro: nel frammezzo, un intreccio mai sazio di voci e silenzi, incontri e separazioni, desideri e nostalgie. Il compimento assomiglia a un abbraccio, dove non si distingue chi offre e chi chiede. Ed è fatto di un pieno e di un vuoto, di un sostare e di un andare: silenzio e racconto. Silenzio è tempo per guardare lungo, profondo, dentro: e per decidere di andare avanti, lontano, in fondo. Non c’è un silenzio interiore e uno esteriore: c’è solo la voce della vita, fatta di pause e di note, di luci e di ombre, di distacchi e di prossimità. E tutto ci appartiene.

Scrive Alessandro D’Avenia: «Non dobbiamo solo obbedire alle voci “esteriori” che ci dicono cosa fare (...), ma ascoltare la più sottile voce interiore che ci ricorda chi siamo e che cosa possiamo fare per gli altri, ciascuno nel suo ambito». La pelle che ci protegge e ci separa dal “fuori” è la medesima linea di confine che permette l’incontro. La voce che sa dire e tacere è il canale che, anche solo sussurrando, può chiamare per nome, con il nome giusto, ciascun incontro, fino ad abitarlo, con pienezza, e gustarlo come frammento della piú grande bellezza. «Usciti dal frastuono del troppo – continua Paolo Rumiz –, vediamo più chiaro.

Ed è strano, per un nomade, viaggiare in una stanza e accorgersi che tante cose possono accadere in uno spazio dove la frontiera è la porta di casa e, talvolta, la pelle del proprio corpo». Nomadi nella stanza della vita, mentre voce e silenzio, vuoto e pienezza, scrivono pagine di vita che cresce.

Per questo, scrive Riccardo Luna, sempre in questi giorni di isolamento, «tenetevi da parte ogni giorno del tempo vuoto, come se foste astronauti in una passeggiata spaziale, per ascoltare il vostro respiro e i vostri pensieri piú intimi». E sarà: rinascere.

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