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Parole per il tempo di Quaresima

suor Marzia Ceschia

L’itinerario del tempo di Quaresima (iniziato il mercoledì delle Ceneri) è scandito dalla liturgia che ci introduce progressivamente nei misteri centrali della nostra fede: la Croce, Morte e Resurrezione di Cristo, sorgente inesauribile di Misericordia e di Vita per quelli che si lasciano attirare da Lui (cf. Gv 12,32). In questo cammino che la Chiesa annualmente ci guida a compiere, possiamo individuare alcune parole chiave come altrettante soste di verifica e di approfondimento.

Il monito con cui il percorso quaresimale si apre è quello alla conversione: «Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti» (Gl 2,12). Convertirsi esige una decisione di riorientare la propria esistenza a partire dal cuore, dallo spazio più intimo della nostra persona, dagli “affetti” che in vari modi determinano le nostre scelte, le nostre fedeltà e infedeltà. Convertirsi non è soltanto un atteggiamento morale, ma implica il tornare al punto di partenza della nostra vita: l’Amore del Padre che ci domanda di appartenere al suo Regno con autenticità, assumendone le logiche, comportandoci da figli.

Convertirsi significa ripartire da Dio, non dalle nostre autoreferenzialità, dai nostri egoismi che ci chiudono nella solitudine del ripiegamento su se stessi. In questo contesto possiamo comprendere il valore della seconda parola sulla quale ci soffermiamo: penitenza. Non si tratta soltanto di praticare l’ascesi (che ne è indubbiamente un aspetto), né si riduce al “fare le penitenze”. Puntualizzava il santo papa Paolo VI nella Costituzione Apostolica Paenitemini (17 febbraio 1966) che la penitenza «è quindi, già nell’Antico Testamento, un atto religioso personale, che ha come termine l’amore e l’abbandono nel Signore».

Ce ne offre un esempio concreto e illuminante Francesco d’Assisi, all’inizio del suo Testamento, narrando la circostanza fondamentale della sua conversione: «Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo».

La memoria di Francesco ci lascia intuire un legame speciale fra fare penitenza e fare misericordia, ossia assumere con amore la miseria dell’altro nella coscienza che ciascuno di noi ha estremo bisogno di ricevere misericordia dal Signore, di sentire che ciò che è amarezza in se stessi è convertito in dolcezza. Vivere riconciliati con la fatica spesso a sopportare noi stessi e, più spesso, a sopportare gli altri è una grazia che il Signore opera in quanti con umiltà gli domandano perdono, implorano da Lui la pazienza e la compassione, frutto di un cuore che sa dove fondare la sua pace anche nelle burrasche.

Vivo davvero la riconciliazione se sono capace di uno sguardo di speranza: «Ed eccoci capaci di abbandonare in Dio ciò che prende d’assalto il nostro cuore: qui è la sorgente dove ritrovare la freschezza dello slancio», scriveva frère Roger di Taizé in una sua lettera rimasta incompiuta. Anche l’elemosina è una forma di riconciliazione: non è un mero atto di pietà nei confronti di chi è più disagiato di noi, ma la tensione a riformare un equilibrio tra la tutela della mia dignità e della dignità di ogni altro.

Risuonano in questo contesto forti e significative le parole di don Primo Mazzolari in Tempo di credere: «Davanti al presepio, come nella taverna di Emmaus, è qualcuno solo chi ha niente. Gli può soltanto parlare uno che ha niente. Se uno fa gli affari su quelli che muoiono in trincea o in mare, non ha diritto di parlare. Se uno non ha cuore per chi ha perduto la casa, la patria, la chiesa... non ha diritto di parlare.

Se uno non ha fame e sete di giustizia per tutti i depredati, per tutti gli oppressi, non ha diritto di parlare. Io non ho diritto di parlare. Il mio benessere mi oltraggia, il mio egoismo mi schiaffeggia, la mia comodità mi diminuisce fino a togliermi ogni diritto di parola». In questa prospettiva anche il digiuno ha senso – serve davvero allo spirito – quando il suo esito è la condivisione, una crescita in fraternità.

In queste dimensioni è visibile, concreta, l’opera di trasformazione che attua su di noi e in noi la preghiera in questo tempo di Quaresima, formandoci alla disponibilità a condividere la passione di Cristo per l’uomo, provando a vivere anche noi, in quello che ci è possibile, il “dare la vita” con gratuità perché la sorella e il fratello possano sperimentare, nell’essere amati, una libertà maggiore.