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La preghiera del mattino

Alberto Amadio

Ecco, ci sono cascato anch’io, benché rimpianga il telefono fisso, con la cornetta da sollevare e accostare all’orecchio, il filo che si attorcigliava su sé stesso, le rotelline per comporre i numeri, facendo attenzione che il dito non “scappasse” fuori dal cerchietto prima della rotazione completa, altrimenti si doveva ripetere tutto daccapo! Che ridicolo cimelio, vero?

Eppure allora si riusciva ugualmente a sopravvivere, anzi, a vivere più tranquillamente! Pure io – dicevo – son caduto prigioniero di un’abitudine che ormai ci ha resi schiavi un po’ tutti: al mattino, appena sveglio, accendo il cellulare, controllo che non siano arrivati nuovi messaggi e lo metto immediatamente in carica. Ma è questa la preghiera del mattino che ci insegnavano le nostre mamme e nonne: ringraziare il Signore di averci custoditi durante la notte e invocare il Suo aiuto all’inizio della giornata? Purtroppo no!

La libertà di potersi concedere almeno qualche minuto di raccoglimento con Dio, che ci offrirebbe tanta pace e consolazione, ci viene spesso tolta dall’ansia degli impegni quotidiani, accresciuta dai nuovi mezzi tecnologici. È una situazione preoccupante, soprattutto per i più giovani. Un articolo del 2008, pubblicato su La Repubblica, racconta di due ragazzini spagnoli, di 12 e 13 anni, ricoverati in ospedale su richiesta delle loro stesse famiglie, presso il Centro di salute infantile e giovanile della città di Lleida. La direttrice, Maite Utges, formulò una diagnosi di intossicazione da cellulare.

Essi, infatti, una volta privati del loro apparecchio, mostrarono i sintomi di una crisi di astinenza così tremenda come quelle che prova chi è dipendente dai più pesanti stupefacenti. Uno dei due ragazzi guarì dopo tre mesi di cura; per l’altro ne furono necessari sette. Questi erano stati i segnali d’allarme che avevano messo in allerta i familiari: la tendenza all’isolamento, l’irritabilità, lo scarso rendimento a scuola, le richieste continue di denaro per le ricariche. Il telefonino può diventare una droga, genera un bisogno ossessivo in grado di rovinare l’esistenza, specie durante l’adolescenza e la giovinezza che dovrebbero essere le età più serene.

L’andare avanti a forza di “click” per spedire comunicazioni con un linguaggio telegrafico, l’accedere velocemente a giochi virtuali o a Internet, abitua a vedere e ad ascoltare all’istante ciò che si vuole, ma nella vita non sempre si ottiene ciò che si desidera o, almeno, non subito; così, per chi non accetta la realtà, le delusioni possono rivelarsi intollerabili, tanto più per i nativi digitali. I giovanissimi stanno disimparando non solo a leggere e a scrivere, sia a mano che al computer, ma anche a conversare. Il dialogo, la lettura, lo studio esigono riflessione, ascolto, capacità di attendere, di soffermarsi a pensare, indispensabili per un’autentica relazione con gli altri.

Un biglietto del treno lo posso acquistare online da casa, comodamente seduto, ma può succedere che mi perda un sorriso, uno sguardo benevolo, una parola cortese che mi potrebbero offrire l’impiegato che me lo vende o una persona che fosse lì ad aspettare in fila con me. Auguriamoci di non diventare come il Diditì, o Drogato da telefonino, protagonista di un racconto di Stefano Benni, che per la fretta intinge il cellulare nel cappuccino e accosta la brioche all’orecchio o, alla ricerca disperata “di campo”, si sporge a mezzo busto dalla finestra, come un uomo alla gogna!

Scrive la cantautrice Francesca Michielin: «È l’umanità che fa la differenza, portami in Bolivia per cambiare testa, portami in Bolivia per cambiare tutto. Spegnerò il telefono, sarò libera e indipendente. Mamma no, non ho bisogno di niente». Lo schermo di uno smartphone non ci può donare il calore, l’affetto che invece suscita in noi l’umanità, specie quella più povera e bisognosa d’amore.