Anno 132 - Maggio 2020

La fede e le leggi dello Stato

a cura della Redazione

Come credente sono rimasto molto amareggiato dalle misure intraprese lo scorso 8 marzo dal nostro governo (relative al Covid-19), che hanno portato, se non alla chiusura delle chiese, all’annullamento di ogni celebrazione religiosa. Come cristiani ci siamo trovati a vivere la quaresima in coincidenza con la quarantena senza il tradizionale rito della via crucis nei venerdì, la partecipazione all’Eucaristia domenicale in chiesa e soprattutto senza la partecipazione ai riti del triduo e della Pasqua. Mi chiedo se tale provvedimento non sia in contrasto con l'articolo 19 della nostra Costituzione, relativo alla libertà di culto. Il fatto che le esigenze religiose e spirituali non siano state annoverate tra i servizi di necessità fa porre molti dubbi e domande: si può andare dal tabaccaio a comprare le sigarette, dal ferramenta a comprare un martello, al banco del fresco degli alimentari per farsi servire dell'affettato o del pane, ma non solo non è possibile prendere l’Eucaristia in chiesa, ma nemmeno confessarsi. All’imposizione governativa la risposta delle gerarchie cattoliche è stata timida, vorrei dire apertamente “sottomessa”.
A.G.

Carissimo, capisco la sua fatica nell’essere privato dalla partecipazione alla Liturgia in particolare nel prezioso tempo della Quaresima e della Pasqua. Ma la libertà e la semplicità con cui i nostri vescovi hanno accettato di accogliere le restrizioni decise dal governo per la pandemia del coronavirus non è affatto un atto di “sottomissione”, ma un atto di libertà evangelica che è più grande del diritto costituzionale alla “libertà religiosa”. Proprio in forza della libertà che ci è stata donata dal mistero pasquale di Cristo Signore, come suoi discepoli abbiamo tutta la libertà di declinare, in modo diverso e adeguato alle circostanze, la nostra vita di fede e la nostra pratica di preghiera. Il tempo di questa sorta di Quaresima universale, che ha coinciso con la quarantena globale, rimarrà impresso nella nostra memoria di Chiesa come un’occasione forte di crescita nella preghiera e nella condivisione. Come battezzati siamo tutti insigniti dal carattere indelebile e fondamentale del sacerdozio battesimale che ci permette di rivolgerci a Dio in prima persona e a nome dell’umanità intera. Ciò che fa la differenza del nostro essere battezzati in Cristo non è l’arroccarsi alle nostre consuetudini anche religiose e cultuali, ma il portare il frutto della Parola di Dio e dei sacramenti celebrati e ricevuti. Proprio la nostra vita sacramentale abituale ci mette in grado di dare “frutti buoni” sia in tempi sereni che in tempi tormentati: una preghiera che nasce dal cuore e si può vivere anche nel “segreto” della propria “camera” (Mt 6,6) e nell’intimità della propria famiglia o comunità. I nostri vescovi, le assicuro, non si sono “sottomessi”, ma hanno esercitato il loro ministero specifico di interpretare ciò che è più adeguato perché la salvezza significata dai sacramenti si faccia esperienza concreta di orazione e di condivisione. Quelle che abbiamo appena vissuto non sono state una Quaresima e una Pasqua “disgraziate”, ma un tempo di grazia particolare e unica. Questo perché mai la grazia viene meno e la sua efficacia dipende anche dalla nostra libertà interiore e creatività spirituale.

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