Anno 131 - Maggio 2019

Artigiani del tempo

Germano Bertin

Questa è la professione che tutti ci accomuna. Presi per mano da ogni sguardo che ci raggiunge, diventarne responsabili. Fino a darvi una forma, capace di trasformare: anzi di trasformarci

Molte volte si ha l’impressione che tutto intorno a noi sia veloce, piú veloce di quanto vorremmo o riusciamo effettivamente a vivere. Tutto accade in fretta. Troppo. E cosí si ha la sensazione di fare cose che non abbiamo scelto, di inseguire destinazioni che non ci appartengono, di essere vissuti piú che aver vissuto.

E proviamo la sensazione di trovarci dentro a un flusso che ci trascina e travolge, come potrebbe accadere quando ci si trova dentro a un corteo di persone che si muovono, una stretta all’altra, senza conoscere bene la destinazione o, addirittura, la motivazione dell’andare.

Tentare di uscire da quell’essere trascinati, provare a cambiare direzione o addirittura osare anche solo fermarsi per qualche istante, per capire, per ri-orientare il nostro andare, appare quasi una temerarietà, ancorché una impresa non possibile. In fondo, si prova la sensazione, o meglio si teme, che gli altri possano vivere senza di noi, e cosí si teme di essere tagliati fuori dalla vita.

«L’essere umano – scriveva Walter Bonatti, alpinista d’alta quota – mangia senza fame, beve senza sete, si stanca senza faticare, rincorre il tempo senza raggiungerlo mai ... alcuni esseri umani hanno bisogno di riprendersi le proprie vite, di ritrovare la strada maestra: non tutti ci provano, non tutti ci riescono». Riprendersi la vita. Ritrovare la strada maestra, quella che non è tracciata fuori di te e tantomeno è tracciata da altri, ma che cresce e si fa spazio dentro mano a mano che impariamo a leggere gli sguardi che si posano su di noi: fino a diventarne responsabili.

Ovvero, li facciamo diventare segno che parla, chiede, orienta. «Io mi sento responsabile – ha scritto Dostoevskij – non appena un uomo posa il suo sguardo su di me». Lo sguardo è una domanda. Diventa una domanda, ma solo per chi osa permettersi di voler sapere da dove nasce la propria fame, da dove sgorga la propria sete e si concede il privilegio di sostare, di guardarsi in faccia, di fissare lo sguardo della vita.

Artigiani del tempo. Questa potrebbe essere la professione che tutti ci accomuna. Non piú sopraffatti dal tempo, condizionati dal generale andare, giustificati dalla forza di eventi, esigenze, pressioni che definiamo “piú forti” del nostro stesso desiderare e scegliere. Ma risalire. Ovvero, prendersi in mano, sporcarsi le mani con il tempo che ci scorre intorno, dentro, ovunque. Cominciare a leggere le domande che affiorano negli spazi interiori che ci appartengono, ma che troppo spesso temiamo di abitare. Affrontare il senso che, in fondo, tanto cerchiamo: e darvi forma. La nostra. L’unica.

E certi sguardi passano una volta soltanto. Ogni sguardo passa una volta sola. E ti appartiene. Interpella il tuo. E non ti lascia, fino a che tu non te ne fai responsabile. Ovvero fino a che tu non osi risalirlo, fino ad arrivare a coglierne il senso e il messaggio buono per te, giusto per te, destinato proprio a te.

Controcorrente. Questo è necessario fare se vogliamo incrociare sguardi e risalire terre che sono affascinanti solo perché, proprio perché sono alte: e per questo interpellano, inquietano, mettono in cammino. E te ne fanno diventare responsabile. Artigiani del tempo: perché abitati, responsabili di sguardi che danno forma. Ovvero che trasformano.

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