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Tre “notti” che portano alla luce

suor Marzia Ceschia

Il triduo pasquale, culmine dell’anno liturgico, ogni anno ci accompagna ad approfondire il senso autentico del nostro essere discepoli del Signore Crocifisso e Risorto e a risintonizzare la nostra esistenza sul mistero di Lui per camminare autenticamente «in novità di vita» (Rm 6,4). Proviamo a fissare la nostra attenzione sull’itinerario che la liturgia ci offre, percorrendone le “notti”. La notte del giovedì santo è segnata da due scene in drammatica contrapposizione: da un lato il tradimento di Giuda, dall’altro la rivelazione della logica del Figlio di Dio nell’istituzione dell’Eucaristia e nella lavanda dei piedi.

Da un lato il “vendere” di Giuda, per trenta monete d’argento (cf. Mt 26,15), il Signore e dall’altro il dono di sé che gratuitamente Gesù garantisce nella Cena: dopo il grande segno che egli ha compiuto tra i suoi, tra quelli che aveva scelto e costituiti «perché stessero con lui» (Mc 3,14), Gesù è arrestato e «tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono» (Mt 26,56). Prima dell’alba lo stesso Pietro lo rinnegherà tre volte. In questa notte possiamo riconoscere tante nostre notti: le notti delle nostre incoerenze, dei nostri tradimenti, dei nostri compromessi, delle nostre paure, dei nostri egoismi.

Eppure Gesù dà totalmente se stesso – consapevole della notte in cui sta entrando - «per molti per il perdono dei peccati» (Mt 26,28). Non si consegna solo per uomini e donne irreprensibili, ma entra nelle tenebre dei nostri cuori e delle nostre coscienze per salvarci da esse con l’amore. Non mette in salvo se stesso perché possiamo avere noi una incrollabile ragione di salvezza, una ragione molto concreta, accessibile. Osservava l’eremita francescana Sorella Maria di Campello (1875-1961): «L’Eucaristia è un fatto così tangibile di amore! Gesù, volendo risvegliare i nostri cuori tardi, ha scelto la creatura pane per farci sentire che è con noi, si nutre con noi, e lui stesso si fa nostro nutrimento».

C’è un’espressione che da quella notte si leva come un continuo monito per il discepolo di tutti i tempi: «fate questo in memoria di me» (Lc 22,19), entrate, cioè, nella misura del mio amore, gli uni nei confronti degli altri. Quale condizione, su questo fondamento, può impedirci di amare, di perdonare, di donare all’altro? Quale motivo può essere così indiscutibile da legittimarci a relegare qualcuno nell’oscurità dell’indifferenza o del risentimento? Ancora meditava Sorella Maria: «... dobbiamo nutrirci di questo pane, non solo in memoria di lui, che sarebbe poco, ma con la venerazione e la partecipazione a ogni sofferenza non solo degli uomini, ma di ogni creatura vivente. Questo è il pane che conduce alla vita.

E la vita deve esserci sacra... ». La notte del venerdì santo è quella dell’estrema desolazione, della aberrazione di un Dio messo in croce, del Signore della vita mandato a morte, egli che «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso [...]. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,6-8). È la notte del dolore indicibile, quella della solitudine del Signore sul monte degli Ulivi, mentre i discepoli dormono.

È la notte che trafigge Maria che, come innumerevoli madri in questo mondo, ha il solo potere di stare ai piedi del patibolo. In questa notte è l’affidamento del Figlio ad aprire il cielo, a confermare la comunione col Padre dalla quale nulla e nessuno può separarci (cf. Rm 8,35), poiché lui stesso è entrato nella lacerazione massima del male, trasformando il simbolo del supplizio in pegno di liberazione. La notte del sabato santo è quella che si affaccia alle luci dell’aurora. È la notte del silenzio, dell’attesa. È il mistero mai visto – ma di cui la creazione tutta respira gli effetti – del Signore disceso negli inferi, vittorioso su tutte le tenebre. È la notte in cui ci prepariamo a cantare l’alleluia, in cui il silenzio prepara la parola, il grido, l’esultanza.

Nell’ “assenza di Dio” il vuoto in noi si fa attesa, si fa speranza. Scriveva San Gregorio Magno: «Cristo è disceso fino alle ultime profondità del mare, quando scese all’inferno più profondo, per liberare da esso le anime dei suoi eletti. La profondità del mare prima della redenzione non era una via, ma un carcere... ma Dio ha fatto di questo abisso una via... ». Nella luce della Pasqua siamo realmente «figli della luce e figli del giorno» (1Ts 5,5), certi che, in ogni tempo, in ogni situazione della nostra esistenza «sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui» (1Ts 5,10).