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Odio le appoggiature

Elide Siviero

Ho una vera idiosincrasia per le appoggiature nel canto. L’appoggiatura è una notina di espressione, che precede la nota reale e prende il suo valore da essa. Capisco che se parlo di questa faccenda con un linguaggio tecnico, molti lettori non sapranno raccapezzarsi: non tutti sanno cosa sia un “abbellimento”, che nella notazione musicale è una nota o un gruppo di note dette accessorie, di fioritura, ornamentali o ausiliarie, inserite nella linea melodica con funzione non strutturale, ma decorativa e/o espressiva.

Insomma, sono definizioni per addetti ai lavori. Potrei chiarire la questione “appoggiatura” definendola quella nota su cui ci si appoggia per raggiungerne un’altra. La voce fa come una curvetta, non canta la nota indicata, ma la abbellisce in questo modo. Ecco: io non sopporto questo. So che è molto di moda, non tanto nella musica pop o rock (la guarderebbero con orrore), ma proprio nelle canzoni religiose.

Nel canto lirico le fioriture, gli abbellimenti, richiedono una maestria eccelsa; le appoggiature solitamente non ci sono nel canto vocale, ma solo nella musica strumentale, mentre invece nelle cosiddette “canzoni di chiesa” è tutto un susseguirsi di queste appoggiature. Credo che questo sia dovuto al fatto che chi canta una canzone religiosa spesso non è un professionista, non sa padroneggiare la voce con perizia, quindi si arrabatta come può per canticchiare alla bene e meglio qualcosa. Ma la canzone poi veleggia in questo modo di bocca in bocca, evocando in me solo il fastidio dell’imprecisione, non l’abbellimento. Mi sono chiesta perché la cosa mi urti così vivacemente.

Al di là del dato tecnico e della poca piacevolezza di un canto così impostato, l’appoggiatura mi evoca il fatto che non occorra essere precisi, che si può cantare come si vuole, basta non stonare. Mi irrita il pressappochismo che nella nostra vita di fede fa quasi più danni di un peccato grave. Esso ci mantiene nell’idea che siccome non facciamo nulla di sbagliato, questo sia sufficiente per essere cristiani.

Ma da un peccato ci si può convertire, come da una stonatura che richiede una correzione, ma nelle imprecisioni si può vivere comodamente, convinti che vada tutto bene: una beata pacatezza priva di slanci che si accontenta di note raggiunte per vie traverse, creando un canto inutile. Già la parola pressappoco è un termine trabocchetto: chissà come si scrive. Eccola con due esse e due pp... e significa “all’incirca, suppergiù”, indica che quanto si è detto va inteso in senso approssimativo.

Ma il Vangelo non può mai chiederci un’adesione approssimativa, come se dicessimo con la nostra vita che Gesù ha chiesto più o meno di amare i nemici, all’incirca di pregare, suppergiù di cercare prima il Regno dei cieli. Ecco perché quando sento cantare con le appoggiature mi verrebbe da dire: «Coraggio, prendetela giusta “’sta nota”, abbiate l’ardire di andare diritti al centro, senza scorciatoie, senza appoggiarvi a qualcos’altro!

Non accontentatevi del pressappoco, siate precisi nel canto per essere anche precisi nella vita. Meglio sbagliare con audacia, che galleggiare in laguna senza conoscere il mare aperto».