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L’Eucaristia: dal cuore di Gesù

Don Chino Biscontin

Il Giovedì Santo, con la lavanda dei piedi e la memoria consacrante dell’ultima cena, ci invita a capire quello che è stato il testamento che Gesù ha lasciato ai suoi discepoli, uscito dalla sua anima, dai suoi sentimenti. Chi vuole comprendere l’Eucaristia deve vederla mentre esce dal cuore di Gesù. Tre erano i sentimenti laceranti nell’anima di Gesù in quella drammatica sera. Anzitutto l’angoscia per le sofferenze e la morte imminenti, e più ancora per ciò che appariva un fallimento della sua missione.

Inoltre l’abbandono fiducioso nelle mani del Padre, dettato da un immenso amore e da una incrollabile fedeltà alla missione affidatagli. Infine la sollecitudine verso i suoi discepoli, dettata anch’essa da amore, con il desiderio di aiutarli a far fronte allo scandalo che sarebbe piombato su di loro, e a prepararli a continuare la sua missione. Gesù vuol far comprendere ai discepoli il significato della sua morte, se essa viene interpretata non dal punto di vista degli uccisori, ma dall’interno della sua anima. Dirà: «Nessuno me la toglie: io la do da me stesso».

Gesù non muore solo per amore, ma muore di un amore portato all’estremo. È questo che Gesù vuol far comprendere lavando i piedi dei discepoli. Egli è il Servo di Dio e perciò servo degli uomini, che porta a compimento la missione affidatagli dal Padre, amando sino al dono della vita. Poi Gesù si mette a mensa con i discepoli. E dirà: «Fate questo in memoria di me». Vuole che non dimentichiamo quelli che egli ritiene i segni più limpidi della sua missione: i pasti con i peccatori. Peccatori rassegnati a condurre un’esistenza da avversari di Dio, e come tali emarginati dalla comunità, a cui Gesù offriva la vicinanza benevola di Dio, la possibilità di una nuova esistenza e la riconciliazione fraterna.

Non era forse questa la novità buona che annunciava, il Regno di Dio già inaugurato? «Fate questo in memoria di me»: io vi sarò presente e in mio nome ci sarà riconciliazione con Dio e comunione fraterna. La cena avviene nell’ambito delle celebrazioni pasquali ebraiche. Il cibo e le bevande, il comportamento e anche le parole erano disciplinati da un rito che Gesù sostanzialmente rispetta, rompendolo tuttavia in due momenti altamente significativi: all’inizio, quando spezza e distribuisce il pane, e alla fine quando fa passare l’ultima coppa di vino. E pronuncia parole drammatiche: «Questo è il mio corpo dato per voi», «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per le moltitudini».

In questo modo Gesù vuol far comprendere il senso del suo cammino verso la morte: non il trionfo dei suoi avversari, non la smentita della sua missione, ma la forma dolorosa, imposta dalla cattiveria del mondo, del dono della propria vita ai propri amici, che in quel momento rappresentavano l’umanità intera. In quel dono era loro consegnata la riconciliazione con Dio, la salvezza. E Gesù invita a mangiare il suo corpo, a bere il suo sangue: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?», leggiamo nel Vangelo secondo Giovanni.

Ma il significato che Gesù voleva trasmettere è dolcissimo. Gesù conosce le proporzioni della fame e della sete che abitano inevitabilmente dentro di noi e che possono determinare la nostra infelicità, la nostra esposizione al ricatto del male, la nostra perdizione. Gesù ha voluto togliere quell’infelicità, ha voluto rompere quel ricatto restituendoci la libertà di essere persone positive, buone, e perciò felici. E ha esposto la sua vita affinché quella fame e quella sete fossero estinte una volta per sempre. Ancora nel quarto Vangelo: «È il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero»; «Chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna»; «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena».