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La “leggerezza” della pazienza

suor Anna Maria Borghi

Nell’immaginario comune la pazienza più che una «veste molto bella», come Antonio ci invita a pensarla in qualità di virtù intessuta dallo Spirito, corrisponde piuttosto a un abito dimesso e pesante, che manifesta come un’attitudine alla rassegnazione, alla sopportazione… tutt’altro che leggera! In effetti l’etimologia del termine ne conserva il legame con la sofferenza: paziente è colui che patisce, che prova dolore, che reagisce alla sofferenza non sottraendosi a essa. Lo stesso Antonio, nei suoi Sermoni, principalmente ne parla come dell’habitus di Gesù nella sua passione: Egli non cerca di farsi giustizia da solo, ma rimane immerso negli avvenimenti tragici, confidando nell’affidabilità del Padre.

Eppure in lui non c’è sentore di opprimente vittimismo, di rassegnazione delusa, ma piuttosto la confidente determinazione a offrire la propria vita: «Io do la mia vita, [...]. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso» (Gv 10,17-18). A questa medesima disposizione sono invitati i suoi discepoli, in particolare a esercitare la virtù della pazienza come contro-parola all’ira scatenata dalle avversità, che inducono a reagire aggredendo altri o se stessi. I credenti sono infatti incoraggiati a orientare e trasformare tale energia vitale in positivo ed edificante vigore... proprio come Gesù, che ha fatto del tradimento subìto il dono sublime di sé, senza “far fuori” chi gli era “contro”, anzi confermando per tutti la sua incondizionata dedizione.

E se tale grazia - poiché di dono di Dio non può che trattarsi - appare compimento arduo di autodeterminazione, Antonio sembra suggerirci in alcuni passaggi dei suoi testi due “piccole vie”, due “accessibili” strategie che “alleggeriscono” la sensazione della pazienza come di gravosa disposizione e ci possono disporre a esercitarla con gradevole frutto. Riportando l’episodio della fornace ardente in cui vengono rinchiusi i tre fanciulli (Dn 3), egli scrive: «l’angelo del Signore allontana da loro la fiamma del fuoco e rende fresco l’interno della fornace, come se vi spirasse una brezza rugiadosa […]. Questi tre fanciulli raffigurano quelle tre virtù che hanno il potere di far uscire illesi dalla fornace. […] Mesach, il cui nome s’interpreta “sorriso”, raffigura la pazienza, che sa sorridere anche nelle tribolazioni».

In un altro passaggio afferma: «Considera che la virtù della pazienza si pratica in tre modi: sopportando alcune cose da Dio, come i castighi; alcune cose dal nemico, come le tentazioni; alcune cose dal prossimo, come le persecuzioni, i danni e le ingiurie; in tutte queste circostanze dobbiamo stare molto attenti a non lamentarci troppo […] per non reagire malamente». Sorridere e non lamentarsi troppo nelle tribolazioni: la pazienza all’insegna della “leggerezza”! Il sorriso come una sorta di protezione, come brezza rugiadosa che impedisce al fuoco del dolore di sopraffarci e la determinazione a tacitare la lamentela eccessiva per non alimentare pensieri negativi, che alla lunga oscurano e gravano il nostro sguardo e il nostro passo... proprio come quando mettiamo legna sul fuoco e ne esce solo fumo che annebbia la vista!

Trasformare la rabbia in lamentela è reazione immediata e facile, ma non fa che concepire ulteriore amarezza; decidersi di investire altrimenti tale energia nel sorriso, cioè figurativamente nel diffondere leggerezza e confidente disposizione verso la realtà potrebbe essere la forma della pazienza in cui esercitarsi anche nel cammino di Quaresima che si apre in questo mese, il nostro “piccolo passo” dietro al Signore che “con leggiadra pazienza” si dona!