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La fede, tra paura ed epidemia

a cura della Redazione

A mio avviso la drammatica esperienza dell’epidemia del virus, che stiamo vivendo in questi mesi, ci ha messi tutti con le spalle al muro: abbiamo dovuto abbassare la superbia che proveniva dall’aggrapparci alle capacità tecnologiche, abbiamo contenuto l’arroganza che esprimevamo nei confronti della natura e degli altri esseri viventi, abbiamo gettato la falsa maschera di padroni della vita e del futuro. La paura è andata a invadere i nostri animi: abbiamo invocato a gran voce la ricerca scientifica, ma a stento sta dando risultati. Confesso che anch’io, nonostante la fede che mi ha accompagnata fin da bambina, mi sento impaurita e non so più dove aggrapparmi...

C.M. (Lodi)

Gentile signora, come cristiani non possiamo e non dobbiamo che aggrapparci alla nostra fede pasquale in Cristo Signore, morto e risorto per noi! Il Vangelo ci mostra che il cuore del cuore della rivelazione in Gesù, volto misericordioso del Padre di tutti e creatore di ogni cosa, è la compassione. Quello che stiamo vivendo in questi mesi può diventare occasione per fare il punto sulla nostra maturazione in umanità. Essere umani, senza accontentarsi di far parte della categoria degli esseri umani che abitano questo lembo di cosmo con e tra le altre creature, significa accettare il nostro limite fino a onorare quelli che sono i nostri limiti.

L’epidemia che stiamo attraversando non è un flagello divino, è un segno da leggere con umiltà e da portare con pazienza e compassione. Noi occidentali forse eravamo troppo sicuri di essere indenni dalla nostra dimensione di creature come tutti gli altri. Invece dobbiamo misurarci col fatto che non siamo esenti dalla mortalità anche se ci sentiamo così onnipotenti. L’ottimismo forzato in cui ci siamo blindati con l’idea che, seppur non siamo la razza superiore, siamo coloro che sono stati capaci di prendere in mano il loro destino, deve trasformarsi in un ottimismo tragico: siamo creature come tutti e la speranza di una vita lunga e bella non può essere un privilegio gelosamente custodito, ma un tesoro da condividere, come si fa nei giorni di festa durante i quali, oltre che gioiosi, ci sentiamo tutti più buoni.

La sofferenza non lascia mai uguali a se stessi: o ci rende migliori o ci rende peggiori. La morte di molte persone, la sofferenza di tanti e la paura di tutti sono un segno che ci richiama a un sussulto di dignità e di umanità. E qui la preghiera è un’àncora sicura: rivolgendoci all’Altissimo, come creature tra creature, ritroviamo la nostra giusta dimensione. Così potremo maturare la capacità di assumere persino la morte senza smettere di amare la vita e di lottare perché tutti l’abbiano in abbondanza. Una domanda rimane in sospeso: «Come uomini e donne sapremo riannodare e rafforzare quella “social catena” di cui parlava, con il suo pessimismo illuminato, Giacomo Leopardi?

E ancora: come credenti sapremo distinguere l’illusione dell’immortalità dal desiderio della vita eterna verso cui ci volgiamo serenamente, mettendo in conto la morte nostra e delle persone che amiamo? Tutto ciò non è certo facile, ma è all’altezza del nostro essere creati “a immagine e somiglianza” di Dio. La coscienza del nostro limite di creature va onorato, accolto e amato. Teniamoci tutti per mano... pur a distanza di almeno un metro!