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Esercitarsi a desiderare

Monica Cornali

L’origine della parola desiderio è una delle più belle che si possa incontrare attraverso lo studio dell’etimologia. Questo termine deriva dal latino e risulta composto dalla preposizione de, che in latino ha un’accezione privativa, e da sidus che significa, letteralmente, stella. Desiderare significa quindi avvertire la mancanza delle stelle. Il prefisso de ha anche valore di origine o provenienza, quindi un altro significato del termine è: proveniente dalle stelle.

Entrambi questi significati sono presenti nella Bibbia quando si parla del desiderio di Dio: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio» (Sal 42,2). Dal punto di vista psicologico si distingue il desiderio dal bisogno e, quando il bisogno è connotato da prepotenza, incoercibilità e irrefrenabilità, si parla di compulsione, termine che deriva dal latino e vuol dire spingere con violenza.

A differenza del desiderio, il comportamento compulsivo è un automatismo irrefrenabile, praticamente subìto da chi lo compie. Non così il desiderio: posso rinviarne la soddisfazione, posso aspettare. E in questa attesa esso si affina, diviene più consapevole e più profondo. Ma la differenza principale tra desiderio e compulsione sta nell’esito della loro soddisfazione: quando realizzo un desiderio raggiungo uno stato di felicità superiore, quando invece appago una compulsione appaio lievemente sollevato, ma spesso solo per pochi istanti, in attesa che arrivi una nuova compulsione.

Il desiderio ha una radice sottile e complessa, legata alla storia, alla memoria, agli affetti dell’individuo, ma anche alla sfera dei valori; insieme ha a che fare con la fantasia e non è sempre concretizzabile in un oggetto immediato. Il desiderio mira a ciò che potremmo chiamare la realtà fondamentale che garantisce orientamento e significato al vivere e all’agire. Esso si potrebbe ancora meglio definire come la capacità di canalizzare tutte le energie verso ciò che è stimato centrale per noi.

Qualora non venga riconosciuto ed educato, rischia di essere confuso facilmente con il bisogno, più semplice da soddisfare, ma più superficiale e passeggero, portando a una saturazione che lascia insoddisfatti e vuoti. Alcune manifestazioni di devianza e distruttività giovanile sono riconducibili a quel vuoto interiore che si è cercato di riempire. Succede spesso anche agli adulti che, in preda a un senso di solitudine o di frustrazione, riempiano i vuoti affettivi consumando delle cose, comprando degli oggetti in maniera appunto compulsiva e quasi del tutto inconsapevole.

Il desiderio, in fondo, scaturisce da una sorta di sintesi che unisce in sé cognizione, affetto, volontà, trascendenza. Il mondo dei desideri rivela all’essere umano che egli è potenzialmente infinito e insieme rivela il suo limite. Questa è la condizione paradossale e tragica dell’uomo: essere limitato e insieme desiderare l’infinito. Occorre portarsi all’altezza – o alla profondità – del desiderare ovvero volgersi a un orizzonte più ampio di quello che noi siamo abituati a guardare. Educare il desiderio significa allora anche affidarsi a un mistero, a un rischio, a una sorpresa.

Svuotarsi, fare silenzio e ascoltare. San Paolo scrive: «Occhio non vide, orecchio non intese, né mai in cuore entrò quel che Dio tiene in serbo per quanti a Lui si affidano» (1Cor 2,9). Assaporando queste parole, come scrisse frère Roger Schutz (1915-2005), fondatore della Comunità di Taizè, «avverti una felicità»?