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Una porta aperta tra passato e futuro

Elide Siviero

Non mi è mai piaciuta l’enfasi dell’ultimo dell’anno con quel conto alla rovescia che segna il passaggio all’anno nuovo. Mi è sempre parso qualcosa di assurdo, come se quel conteggio potesse cambiare qualcosa nella vita delle persone. Nel mio animo, con molta durezza, l’ho sempre definito una sorta di rito pagano, vissuto più per placare l’ansia del tempo che passa che per celebrare qualcosa di nuovo. Poi però, visto che non è certo il caso di mettersi a fare le crociate contro le feste delle persone, ho pensato che potevo darne una nuova lettura.

Gennaio è il primo mese dell’anno nel calendario giuliano e gregoriano; ma esso era l’undicesimo mese nell’antico calendario romano (che faceva cominciare l’anno dall’1 marzo, cioè con la primavera, con la quale tutto ritrova un inizio), ma divenne sin dalla metà del secondo secolo a.C. il primo mese dell’anno e il mese in cui entravano in funzione i magistrati. Il termine gennaio deriva infatti dal latino ianuarius che a sua volta trae origine dal nome del Dio Giano (Ianus), la divinità romana deputata alla protezione delle porte e dei luoghi di passaggio.

Gennaio è quindi da intendersi come il mese che apre le porte dell’anno nuovo, in quanto la sua denominazione deriva direttamente dal sostantivo latino ianua, “porta” secondo gli antichi romani. Giano è quindi il dio degli inizi ed è una delle divinità più antiche e più importanti della religione romana. Solitamente è raffigurato con due volti (il cosiddetto Giano Bifronte), poiché il dio può guardare il futuro e il passato. Questa caratteristica lo pone in una condizione di ambiguità. Gli antichi mettevano il nome del dio in relazione al movimento: Macrobio e Cicerone lo facevano derivare dal verbo ire “andare”, perché il mondo va sempre, muovendosi in cerchio e partendo da sé stesso a sé stesso ritorna.

Quindi una sorta di cerchio magico dove non c’è inizio né fine, ma un eterno ritorno nel quale l’immagine della porta, del varco, implode e non si comincia mai veramente. Quando sento parlare di porta, il mio cuore non può che ritornare al Vangelo di Giovanni in cui Gesù dice: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore» (Gv 10,7). Egli si definisce così perché soltanto attraverso di Lui le pecore, chiamate per nome, possono passare e andare verso i pascoli che assicurano la vita in abbondanza. La porta è il primo simbolo che troviamo nelle nostre celebrazioni: non è solo un varco di accesso, è invece simbolo di Cristo.

Questo simbolo viene enfatizzato in alcune celebrazioni, come nel Rito di Ammissione al Catecumenato, dove l’inizio della celebrazione si svolge all’esterno: chi non è battezzato non può entrare senza che prima qualcuno non abbia aperto la porta e lo abbia introdotto nella comunità. Il segno più importante è proprio il passaggio attraverso la porta, che indica la differenza fra il dentro e il fuori, tra il prima e il dopo. Anche nella Veglia pasquale l’inizio all’esterno enfatizza il passaggio attraverso la porta. Il Rito del Matrimonio propone agli sposi l’accoglienza all’esterno e poi il passaggio attraverso la porta-Cristo dei nubendi e di tutta l’assemblea. Nella celebrazione delle Esequie il feretro è atteso alle porte della chiesa.

Se la porta è simbolo di Cristo, vuol dire che solo attraverso di Lui possiamo entrare nella celebrazione. Solo Lui permette la nostra preghiera. È lui che ci permette di lasciare il passato ed entrare nel suo futuro: il varco che egli ci apre ci lancia oltre. Anche la porta-gennaio diventa per me simbolo di un nuovo cammino che ogni anno il Signore ci dona di vivere.