Anno 132 - Gennaio 2020Scopri di più

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Tra il vuoto e la mèta: un continuo inizio

Germano Bertin

C’è un momento, capita prima o poi, capita a tutti, il momento in cui ci troviamo a vivere, dentro a una solitudine estrema e lacerante, l’ineluttabilità della separazione. Accade, di solito, quando siamo costretti a lasciare, per un tempo lungo, magari lunghissimo, talora per sempre, la mano di una persona cara che se ne parte per un viaggio o per andare a vivere in un altro paese o per andarsene via da noi per mille altri motivi.

Accade di fronte a una scelta, interna, talora intima, che ci costringe a un distacco definitivo: qualche volta a causa di noi stessi; altre volte perché l’altro ha capito, e ha deciso, di chiudere definitivamente una porta, una possibilità. E quell’istante diventa incredibilmente eterno.

Tutto si ferma. E anche se gli occhi rimangono aperti e gli orecchi non si chiudono, inspiegabilmente è come se non vedessimo piú nulla intorno e il silenzio piú assoluto invadesse ogni stanza, persino quella piú interna e sconosciuta, talora, proprio a noi stessi. In quell’istante, allo stesso tempo, tutto diventa improvvisamente chiaro, cristallino, e definitivo. E ci si rende conto di tenere in mano un biglietto di “sola andata”.

E sembra di essere, di diventare, un funambolo: e ci pare di essere con lui nell’istante in cui egli tiene un piede sulla fune, sospesa a quota improbabile, e l’altro, fermo, sicuro, seppure interrogativo, e ancora ben appoggiato sulla piattaforma cui è agganciata la fune che si estende sul vuoto. In quell’istante tutto ciò che passa dal corpo alla mente assomiglia proprio a una fune che attraversa e unisce due mondi apparentemente inavvicinabili.

E lí avviene l’incontro, e la corda, una corda sospesa, permette con facilità apparente l’aggancio, l’incontro, la connessione degli estremi, persino degli opposti: il sicuro e il vuoto; la libertà e il rischio; la fragilità e la temerarietà; la forza e l’affidamento; l’abbandono e l’incontro. «La vita di ognuno di noi – dichiara l’attore Joseph Gordon-Levitt che ha impersonato, nel film “The walk”, Philippe Petit che il 7 agosto 1974 camminò su un cavo di acciaio sospeso tra le Torri Gemelle a 410 metri da terra – assomiglia a quella del funambolo: sospesi su un cavo d’acciaio, a passo leggero, corpo e mente alla ricerca di equilibrio, mentre il mondo fuori lentamente scompare, si è chiamati ad affrontare gli ultimi tre passi, quelli decisivi: tra il vuoto e la meta. Sono i passi in cui ci giochiamo tutto».

Ecco: l’istante in cui ci giochiamo tutto! E accade ciò che a chiunque, a noi stessi per primi, appariva impossibile. Quante volte, nella realtà, accade proprio questo. Da una fune, come da una alta vetta, l’inedito che accade è semplicemente un nuovo inizio. Da lí, da quella solitudine, non solo si genera l’incontro, ma anche il riconoscimento inatteso: da lí diventa possibile vedere quante altre vette ci stanno intorno, quante altre distanze incredibili ci abitano vicine: e in quell’istante si comincia a comprendere meglio che per raggiungere la prossima vetta, per riuscire a percorrere la prossima fune, è sufficiente semplicemente scendere e risalire.

«I limiti – ebbe a dire Philippe Petit, il funambolo di New York – esistono solo nell’anima di chi è a corto di sogni». Ma non siamo noi quelli che si arrendono: se dopo ogni distacco, dopo ogni abbandono o separazione, torniamo a sognare e a preparare quanto basta per mettere insieme - obbedienti al nostro funambolo interiore - un passo dopo l’altro, con leggerezza e nuova consapevolezza.

A piccoli passi, con la nostra camminata insieme sovversiva e poetica, riusciremo a dare vita a ciò che appariva irrimediabilmente diviso, separato, impossibile.