Anno 131 - Dicembre 2019

Il vestito che pizzica

Elide Siviero

Oggi, guardando alcuni abiti che non posso più indossare perché non si addicono a chi deambula con un tutore, mi sono tornati in mente due vestitini di quando ero bambina. A loro sono legati dei ricordi vivacissimi. Il primo era invernale, a sacco, di lana pesante, giallo, con dei quadretti verdi, azzurri e rosa e un delizioso colletto bianco.

Il secondo era estivo, in cotone piquet, tagliato in vita con la gonna ruota e una balza finale. Era bianco con dei cavallini colorati. Era il mio preferito. Mi piaceva molto quello invernale, ma era una vera tortura: era tanto bello quanto scomodo, pizzicava da tutte le parti.

Lo mettevo per andare dalla nonna che abitava a Milano e il viaggio si trasformava in un piccolo supplizio. Ma sapevo che la nonna amava quell’abitino e che sarebbe stata felice di vedermelo addosso. Insomma, il vestito invernale risponde al detto: «Chi bella vuole apparire, un poco deve soffrire».

Al vestito con i cavallini è invece legato il mio primo ricordo sul cambiamento del mio corpo: mi accorsi con quell’abito che non lo potevo più indossare perché ero cresciuta. Mi rammento che non ci potevo credere: non entravo più nel mio vestito preferito e piansi a lungo.

Avrò avuto quattro o cinque anni e per la prima volta presi coscienza che le cose cambiano, che noi cresciamo e fu una vera sorpresa. Questi due abiti dell’infanzia mi portano a due considerazioni. Il primo mi parla ancora adesso che anche per essere “belli” spiritualmente bisogna passare attraverso la sofferenza.

Non si dà vero cammino spirituale senza unione alla croce del Signore. Léon Bloy diceva: «Quando appare una grande personalità, chiedetevi anzitutto dov’è il suo dolore». Ciascuno di noi ha delle zone dolenti: se le viviamo uniti a Cristo, siamo “belli”, anche se indossiamo un vestito che punge.

Il secondo parla di un aspetto più complesso della nostra esistenza: la vita è un cambiamento continuo. Solo se si cambia si sta vivendo. La vita è crescita e ci chiede di saper abbandonare vestiti vecchi per indossare abiti nuovi. Ci insegna che il rischio dell’abitudine, che etimologicamente deriva proprio da habitus, abito, è quello di chiuderci in una situazione che non ammette cambiamenti.

Certo, si soffre nel vedersi invecchiare, nello scoprire nuove rughe, nel constatare che il nostro corpo non è più quello di una volta, ma anche questa trasformazione, che ci costringe a lasciare i nostri abiti preferiti, ci lancia in realtà una nuova sfida: la possibilità di indossare abiti nuovi e scoprire cose nuove della nostra anima.

Gesù Cristo parla proprio di questo quando afferma: «Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per attaccarlo a un vestito vecchio; altrimenti egli strappa il nuovo, e la toppa presa dal nuovo non si adatta al vecchio. E nessuno mette vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spacca gli otri, si versa fuori e gli otri vanno perduti» (Lc 5, 36-37).

La parabola del rattoppo e del vino serve a far comprendere agli interlocutori che con l’arrivo di Cristo si è giunti ad una svolta radicale. Non si tratta solo di fare qualche aggiustamento e di mettere una pezza qua e là; si tratta di indossare un abito completamente nuovo perché l’unica priorità è accogliere il Signore, per vivere come uomini nuovi.

Chiudiamo quest’anno imparando a salutare i nostri vestiti vecchi per entrare nella novità di Cristo.

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