Anno 134 - Maggio 2022

I ragazzi: ma quali?

Elide Siviero

In questo periodo ho una grande difficoltà con la parola “ragazzo”. Per alcuni l’etimologia del termine ragazzo è incerta. Secondo alcune ipotesi potrebbe derivare dall’arabo magrebino raqqās che significa fattorino, corriere, messaggero, e in senso più ampio garzone, in quanto addetto a mansioni servili. Un’altra possibile derivazione è quella dal greco antico ῥάκος (rákos), cioè straccio, cencio, che per estensione sarebbe passato a indicare chiunque vesta miseramente. In entrambi i casi il vocabolo avrebbe perso la sua connotazione principale, mantenendo solo quella della giovane età.

Se guardo nel vocabolario, trovo che con ragazzo si intende un essere umano di sesso maschile, solitamente un bambino o un adolescente. Ma il termine può essere adoperato anche per denotare la leggerezza, l’immaturità o la minore età di un essere per distinguerlo da un adulto. Mi chiedo: fino a quale età possiamo chiamare ragazzo un essere umano? Perché c’è la catechesi per i ragazzi, e si intende quella per persone fino ai 14 anni, poi parliamo di giovanissimi. Ma ormai è invalso l’uso di chiamare ragazzo chiunque.

Quando un sacerdote mi telefona (lavoro per l’Ufficio del Catecumenato della mia Diocesi) e mi chiede cosa fare “per un ragazzo che non ha ancora ricevuto la Cresima”, io ogni volta devo domandare spiegazioni e spesso il ragazzo in questione non è mai un ragazzo: è un adulto, un professionista, a volte anche con un figlio. Mi chiedo perché venga chiamato ragazzo. Anche in televisione danno notizie di giovani a cui succede qualcosa e li chiamano ragazzi. È vero che il limite di età fra un ragazzo e un uomo adulto non è chiaramente definito, dipende piuttosto dal contesto e persino dalle circostanze individuali. Un giovane che non ha ancora assunto i ruoli tradizionali dell’età matura potrebbe venire chiamato ragazzo.

Ma assumere un linguaggio del genere vuol dire legittimare continuamente uno stato di vita in cui si è ragazzi anche a 50 anni, si può non avere ancora preso delle decisioni, dare spessore alle proprie scelte, perché tanto si è sempre ragazzi. Tutto questo è davvero aberrante: se noi adulti non accettiamo di essere adulti, e di crescere e di invecchiare, non potremo mai educare i ragazzi (quelli veri) a crescere, a prendere delle decisioni, a fare delle scelte. Questi eterni ragazzi mi portano una immagine ancora più forte. Siamo nell’epoca delle rotonde.

I semafori un po’ alla volta stanno sparendo, laddove sia possibile mettere una rotonda che permette inserimenti di veicoli con logiche di precedenza che sveltiscono il traffico. Ma mentre il semaforo costringe a prendere una strada, a proseguire, a scegliere, la rotonda ti permette di cambiare continuamente idea... Ora è assurdo rimanere dentro una rotonda per paura della scelta: l’eterno ragazzo assomiglia proprio a qualcuno che voglia trascorrere la vita dentro una rotonda, senza mai prendere una strada.

Ma se noi continuiamo a chiamare ragazzo una persona del genere, avvalliamo con una indulgenza inopportuna il suo comportamento. Per cui propongo di usare il termine ragazzo solo fino ai 18 anni. Poi sono giovani o adulti o signori... Chissà che questo viraggio del linguaggio non aiuti davvero tutti questi eterni ragazzi a crescere...

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