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L’abilità di pensare con il cuore

Monica Cornali

pensare con il cuore

Secondo Norberto Bobbio (1909-2004), invitato dal Cardinal Martini a “La cattedra dei non credenti” nel 1990, «la differenza rilevante non passa tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti», intendendo distinguere tra chi si pone le domande esistenziali profonde (chi sono, da dove vengo, dove vado, che senso può avere il mio esserci) e chi no.

Ci soffermiamo sul “pensiero” inteso non in senso puramente razionale, logico, verbale – che pur è funzionale in molti ambiti della nostra vita quotidiana – quanto piuttosto come quel “cuore” che, in senso biblico, corrisponde alla fucina in cui si forgiano i valori intimi e universali, attraverso l’esercizio di attenzione, discernimento e l’assunzione di decisioni coerenti. Il nostro tempo non è forse connotato da un deficit della capacità di pensare? Mi sovviene la figura di Hanna Arendt (1906-1975), pensatrice tedesca che ha vissuto il clima terribile della seconda guerra mondiale.

Nei suoi scritti ha enucleato il concetto di “banalità del male”, riferendosi non tanto o non solo al male che genera scalpore e indignazione, ma a quella mancanza di bene derivante da una carenza di attenzione, da un mancato esercizio di pensiero, da una pigrizia. Questo non avviene forse quotidianamente all’interno delle nostre famiglie e nei nostri contesti di lavoro? La nostra non attenzione, il “non far caso”, che può sembrare così “innocente”, è invece un pretesto giustificatorio per non far la fatica di pensare.

Quante volte mi son sentita dire da persone messe di fronte a situazioni di crisi relazionale: «Ma io non lo sapevo, non ci ho fatto caso, non ci ho nemmeno pensato, non mi sono accorto che lui/lei stesse così male, non ne avevo l’intenzione, eccetera». Come se questa non attenzione e non intenzionalità fosse una legittimazione e non invece un problema, una mancanza di responsabilità personale. Pensare davvero, infatti, è impegnativo e a volte doloroso: significa mettersi in discussione, rendersi conto dei propri limiti, non presupporre tutto, fermarsi, aprirsi all’altro e all’Altro, ascoltare e, sì, anche ringraziare. È curioso infatti che nella lingua tedesca pensare (denken) abbia la stessa radice di ringraziare (danken). Il pensiero è strettamente correlato al desiderio, all’attenzione, alla sfera dei valori. Solo dall’esercizio di questo pensiero, dalle sue profondità, può scaturire un agire responsabile e compassionevole.

Se una persona non ha mai messo in discussione i presupposti su cui basa la propria vita, se non si è mai confrontata con le fondamentali e spesso abissali domande di senso sul proprio e altrui esistere, se dà per scontato di sapere tutto, possiamo dire che il suo pensiero sarà estremamente povero e di conseguenza la sua azione estremamente banale e autoreferenziale. Insegnare a pensare mi pare un compito educativo di primaria importanza. Incontro a volte genitori che, non sapendo come rispondere alle domande dei figli adolescenti, li mortificano facendoli sentire inadeguati per le loro domande “senza senso”.

Ma esse ritornano, pungono a volte come “una corona di spine” (David Maria Turoldo), cambiano modo di esprimersi, ma tornano. L’adolescente che si arrabbia col mondo racchiude spesso un bambino che a suo tempo ha “chiesto” e non si è sentito accolto nel suo domandare. L’uomo occidentale, in particolare, crede che le domande “vere” debbano essere solo quelle a cui si possa dare una risposta precisa, logica, all’interno di una causalità lineare. In tal modo continua a illudersi di poter padroneggiare la realtà, di averne il controllo, a vantaggio del proprio egocentrismo, più o meno consapevole.

Se abbiamo compreso che cosa significa pensare, va da sé che anche il nostro atteggiamento spirituale, la nostra fede ne sono interessati. Per sant’Agostino “credere non è altro che pensare assentendo”, per cui la fede, se non è oggetto di riflessione, non è fede. È interessante chiedersi a che cosa dice “sì” (assente) colui che crede. Si crede in Dio perché non ci si rassegna all’assurdo, al non-senso, perché ogni uomo sente di essere troppo piccolo per bastarsi da solo e troppo grande per accontentarsi del nulla, perché si desidera far confluire la propria vita in un orizzonte che trascenda il proprio ego.

Possiamo dire che una fede è tanto più matura quanto più si impara a pensare. È quello che ci suggerisce la bella immagine usata da Giovanni Paolo II: la colomba dello spirito vola dispiegando entrambe le ali, la fede e la ragione.