Nell’Europa del Duecento

Sant’Antonio è stato un grande annunciatore della Parola e della giustizia del Signore nella Chiesa e nella società del suo tempo. Ma quali potrebbero essere oggi le sue parole?

Due scadenze mi suggeriscono di avviare il discorso dall’Europa. La Festa dell’Europa Unita, il 9 maggio, e soprattutto le elezioni del Parlamento Europeo fissate tra il 23 e il 26 del mese. Elezioni che molti ritengono decisive. Per me, uomo del primo Duecento, l’idea d’Europa è quella lasciata in eredità dal Sacro Romano Impero di Carlo Magno: politicamente fu un fallimento, ma spostò stabilmente l’attenzione dal Mediterraneo romano al “continente”.

Questa “Europa” del Duecento era diversa da quella che conoscete, ma non mancano i tratti comuni: non esistevano ancora gli Stati nazionali; le frontiere politiche e culturali non erano rigide. Io, portoghese, giunsi in Sicilia, regno normanno passato sotto gli Hohenstaufen, trasportato da una tempesta. Arrivai ad Assisi, che era un libero comune. Quando ebbi dal ministro generale l’incarico di insegnare e predicare, dopo Bologna fui inviato per due anni nella Francia Meridionale (Montpellier, Tolosa, Arles), dove infuriava la lotta contro gli Albigesi. Partecipai al concilio di Bourges (novembre 1225). Fondai a Montpellier una scuola di teologia. Tutto questo per dire che conobbi nella mia vita almeno tre Stati oggi inseriti nell’Europa: Portogallo, Italia e Francia. Dovetti predicare in almeno tre lingue, anche se la comune conoscenza del latino, allora diffusa tra chierici e intellettuali, ammorbidiva i vari passaggi.

L’Europa di allora era coinvolta in una grande trasformazione sociale che stava abbattendo l’economia medievale, con i servi della gleba, per lasciare spazio a una borghesia mercantile e manifatturiera. Tra i risultati, negativi, una maggiore precarietà con l’allargamento della forbice tra ricchi e poveri. Un tema familiare, non trovate? L’Europa di allora era unita da un nemico comune, il mondo islamico, contro cui si combatterono le crociate e la “reconquista” della penisola iberica, da cui provengo, che era per buona parte araba. La città stessa in cui sono nato, Lisbona, era stata conquistata dal re del Portogallo da appena mezzo secolo. L’Europa di allora era unita dal sorgere delle università, tra cui spiccano Bologna, dove ho insegnato, e Parigi, in cui la teologia veniva praticata e discussa con fervore. Come ho detto, in Francia ho fondato a Montpellier una scuola teologica per i predicatori francescani che si dovevano confrontare con gli eretici albigesi.

L’Europa di allora era unita nella Chiesa, cattolica, latina, divisa da quella d’Oriente. L’eresia rappresentava un “nemico interno” che, oltre a resuscitare antiche dottrine manichee, accusava la Chiesa ufficiale di vivere in modo difforme dal Vangelo. Io sono stato definito “martello degli eretici”, ma ritenni sempre che la migliore replica alle critiche degli oppositori venisse dall’esempio. La mia biografia, così avara di notizie sul soggiorno francese, ricorda l’esortazione che lanciai al concilio di Bourges all’arcivescovo Simone de Sully: «Adesso ho da dire una parola a te, che siedi mitrato in questa cattedrale... L’esempio della vita dev’essere l’arma di persuasione; getta la rete con successo solo chi vive secondo ciò che insegna». E nei Sermoni (Domenica delle Palme) ebbi occasione di dire ciò che ci si deve aspettare da un uomo di Chiesa (e di potere...): che sia mansueto verso i sudditi e se riceve un’ingiuria, giusto verso tutti, soprattutto con i superbi, salvatore dei poveri, povero per l’umiltà del cuore... Vale anche per i vostri tempi.

 

Lorenzo Brunazzo