Fui naufrago anch’io

C’è una testimonianza minuta e ricorrente, ripetuta spesso da persone e gruppi, spesso di giovani, che, nel loro cammino formativo vengono in visita all’Opera della Provvidenza Sant’Antonio, la casa di accoglienza per disabili fondata nel mio nome a Padova: «Ho ricevuto più di quello che sono venuto a dare».

E questo non tanto perché ogni dono riempie di intima soddisfazione, ma piuttosto perché condividere significa vincere la paura che cementa ogni barriera e perché l’inattesa ricchezza interiore di chi si vuole aiutare si rivela un reale scossone alle nostre stanche abitudini esistenziali.

Mi torna in mente questa frase nel proporre una riflessione sul tema della giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2019, che per la prima volta si celebra quest’anno in settembre, il 29: “non si tratta solo di migranti”. Il commento di papa Francesco sottolinea come l’accoglienza a migranti, rifugiati, sfollati e vittime della tratta sia una scelta vitale non solo per il loro, ma anche per il nostro destino.

È, in buona sostanza, la cura che la Provvidenza ci mette davanti per guarire una società nutrita dalla “cultura dello scarto”, in cui «ogni soggetto che non rientra nei canoni del benessere fisico, psichico e sociale diventa a rischio di emarginazione e di esclusione». «Interessandoci di loro – sottolinea il Papa – ci interessiamo anche di noi, di tutti; prendendoci cura di loro, cresciamo tutti; ascoltando loro, diamo voce anche a quella parte di noi che forse teniamo nascosta perché oggi non è ben vista».

Dobbiamo dunque essere consapevoli che la questione accoglienza non riguarda solo i migranti, ma anche le nostre paure verso gli altri, i diversi; riguarda la nostra fede che esige di manifestarsi nelle opere di carità; riguarda la nostra umanità, capace di provare compassione e di dare spazio alla tenerezza.

Lo sviluppo vero deve includere tutti gli uomini e le donne del mondo, promuovendo la loro crescita integrale, economica e spirituale, e si preoccupa anche delle generazioni future. Gli immigrati chiedono aiuto, ma vengono insieme a offrirci il loro aiuto, la loro ricchezza di futuro. Dopo le illuminanti parole del Papa, cosa resta da dire? Potrei ricordare che anch’io ho fatto l’esperienza del naufragio sulle coste siciliane e, accolto, qualcuno si è accorto della ricchezza che portavo con me.

Potrei notare che nella basilica sorta sulla mia tomba s’incontrano migranti di ogni parte del mondo, e questo mi consola. Il mio nome confortava i contadini italiani dell’Ottocento, sgomenti davanti all’impresa di domare la giungla amazzonica, e conforta ora africani, cinesi, croati, filippini, indiani, ispano-americani, polacchi, romeni smarriti nella giungla del nostro mondo. Apro infine il volume dei miei Sermoni per cercare qualche parola assonante...

Nelle mie prediche ho parlato spesso della carità, come “anima” della nostra fede, senza la quale essa muore (Domenica X dopo Pentecoste). La carità è la più preziosa di tutte le virtù, essa “perdona al peccatore, corregge chi sbaglia e ristora chi è nel bisogno” (Domenica XX dopo Pentecoste).

E infine, nella Domenica XXII dopo Pentecoste tra i quattro ingredienti della carità indicai “la continua considerazione della nostra bassezza”. E questo mi sembra il punto decisivo: accogliere nel nome della carità, senza alcun senso di superiorità, significa essere consapevoli dei nostri errori, delle nostre distorsioni e dei nostri peccati, e quindi della lezione che il Signore e i nostri fratelli ci impartiscono quando, tra tanti limiti, esercitiamo questa fondamentale virtù.