Domenica della Parola di Dio. Card. Ravasi: “Ma è anche la parola dell’uomo che Dio si attende da noi”

Non è un catechismo o un atelier teologico; non è solo Parola di Dio; non deve essere oggetto di letture spiritualistiche. È dialogo tra Dio e l’uomo perché Dio attende le nostre parole. È vita. È libro del popolo. E nella sua interpretazione, carne e Lògos devono intrecciarsi. A pochi giorni dalla Domenica della Parola di Dio istituita da Papa Francesco, il presidente del Pontificio Consiglio della cultura traccia l’identikit della Bibbia, ne delinea lo stato di salute e invita a “scommettere sui nuovi linguaggi”.

Il 26 gennaio si celebra la prima “Domenica della Parola di Dio”, istituita da Papa Francesco con la Lettera apostolica in forma di Motu proprio “Aperuit Illis”, emanata dal Pontefice lo scorso 30 settembre, memoria liturgica di san Girolamo, celebre traduttore della Bibbia in latino, a 1600 anni dalla morte. “Martin Lutero – esordisce al Sir il card. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura – sosteneva che in Italia la Sacra Scrittura è così dimenticata che rarissimamente si trova una Bibbia”, mentre Paul Claudel, alla metà del Novecento, “ironizzava sul rispetto che i cattolici mostrano verso la Bibbia, tenendosene a debita distanza”. “Ora questo non si può più dire”, osserva l’insigne biblista; tuttavia l’iniziativa del Papa è importante per “riscoprire valore, vitalità e centralità delle Sacre Scritture”.

Eminenza, secondo lei questi aspetti si sono perduti?
Sono tre gli elementi sui quali riflettere. Anzitutto la necessità di ritornare alla conoscenza della Scrittura con la stessa carica e passione con cui questo si era verificato subito dopo il Concilio Vaticano II che aveva avvicinato di molto i testi sacri ai fedeli. Attraverso questa giornata Il Papa vuole proporre al credente il ritorno ad una certa vitalità perché oggi, nel fluire della storia, l’interesse per le questioni di tipo sociale o antropologico è più avvertito del bisogno di avere un riferimento basato sulle Scritture. Di qui l’importanza dell’appello di Francesco a riscoprire la Bibbia, a “riappropriarsene” con la passione degli anni postconciliari come lampada per i propri passi.

Qualche giorno fa, nel messaggio sull’insegnamento della religione cattolica a scuola, la presidenza della Cei ha sottolineato il valore dello studio della Bibbia anche dal punto di vista culturale.
Questo è il secondo elemento di riflessione. Bibbia come grande codice della cultura occidentale, stella polare dell’ethos e del comportamento, imprescindibile per chi si ponga domande di senso. Alcuni anni fa si è insistito molto sulle radici cristiane dell’Europa; tema oggi meno sentito ma che non si può ridurre a mera questione di tipo religioso. Si tratta di una questione culturale. Umberto Eco si chiedeva perché i nostri ragazzi devono sapere tutto degli eroi di Omero e non sapere nulla di Mosè e del Cantico dei cantici.

Entrambi sono fondamentali per la nostra formazione culturale. In questa luce occorre certamente riproporre la Bibbia all’interno della scuola come filigrana del tessuto culturale, storico e artistico europeo, e non solo. Se si entra in una pinacoteca europea senza conoscere la Sacra scrittura, si rischia di non comprendere la maggior parte delle opere esposte; ma è così per tutta l’arte nel suo insieme, musica compresa.

Lei accennava anche ad un terzo aspetto.
Un elemento che non si sottolinea mai abbastanza, quello dell’ermeneutica, dell’interpretazione della Bibbia. Una questione di grande rilievo perché la religione ebraico-cristiana è una religione storica, incarnata. Quando si dice “Parola di Dio” si afferma una verità, ma che non è completa perché la Bibbia è Parola di Dio e parola dell’uomo.

È un dialogo. I Salmi sono preghiere, segno che, come sostiene il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, la Bibbia non è soltanto la parola di Dio rivolta a noi ma anche la parola che Dio si attende, rivolta da noi a Lui.

Pensiamo all’intensità del libro di Giobbe. La Bibbia non è un catechismo contenente asserti precisi e teoremi puntuali, formulati in maniera ineccepibile in una sorta di atelier teologico; è una storia; suppone una vicenda emblematica sulla quale devono essere confrontate tutte le vicende personali. Dio, che ha deciso di incarnarsi attraversando la nostra storia dice: devi decifrare la mia presenza anche lì; presenza di giudizio ma anche di salvezza. Per questo bisogna fuggire la tentazione di una lettura spiritualistica della Bibbia: la “carne” della Parola e il Lògos trascendente devono essere intrecciati tra loro.

Il Papa ha scelto una data non casuale: la terza domenica del tempo ordinario, a ridosso della Giornata del dialogo con gli ebrei (oggi) e della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.
È significativo che abbia voluto collocare la Domenica della Parola all’interno del tempo ordinario, non nel tempo di Pasqua o Natale.
Questo perché la Bibbia deve diventare guida ordinaria e la giornata dedicata non deve rimanere unica e isolata, ma incastonarsi all’interno del tessuto dell’anno liturgico. Del resto, nella celebrazione liturgica Sacra scrittura ed Eucarestia sono inscindibili.
È emblematico il racconto di Emmaus, da cui il Papa trae il titolo della Lettera apostolica: prima Gesù cammina con i discepoli spiegando le scritture e facendo loro ardere il cuore; poi spezza il pane, prefigurando così la struttura della celebrazione liturgica. Ma la Bibbia è anche lo strumento, il nodo d’oro che tiene insieme il dialogo ecumenico con il mondo ortodosso e protestante, e il dialogo interreligioso, in particolare con gli ebrei, di cui costituisce la comune base oggettiva.

Per Francesco non può essere patrimonio solo di alcuni, ma libro del popolo.
Oltre a testo costante della liturgia, occorre far ritornare la Bibbia come libro fra le mani delle persone semplici, libro quotidiano da far entrare nella piazza e in casa perché è libro del popolo. In passato, fin dal Medioevo, per chi non sapeva leggere le pareti affrescate delle cattedrali e le immagini sacre costituivano la Biblia pauperum. Ai nostri giorni la pubblicistica biblica è notevole, le note in calce e i commenti aiutano anche i lettori meno “attrezzati” ma occorre fare qualcosa di più a livello “laico”.

A che cosa sta pensando?
Bisognerebbe riuscire a spiegare l’arte e la musica mostrandone il codice sotteso, ma pure a “trascrivere” la Bibbia nei nuovi linguaggi secondo le grammatiche culturali di oggi: cinema, televisione, videoart, “inserendola” anche nella cultura digitale. Penso, in passato, al Vangelo secondo Matteo di Pasolini, alla passione di Cristo nell’Andrej Rublëv di Tarkovskij: anche oggi è importante stimolare attraverso l’arte, la cultura, il cinema e i nuovi linguaggi la riflessione sui grandi temi religiosi.
Non è semplice: il rischio banalizzazione o spettacolarizzazione è dietro l’angolo, ma occorre avviare una seria riflessione e scommettere di più su questo versante che richiede competenza e coraggio.

 

Giovanna Pasqualin Traversa - Agensir