Ricevere un’insospettabile diagnosi di tumore al seno aggressivo, alla soglia dei trent’anni durante l’allattamento della tua bimba di nove mesi, e un bimbo di due anni e mezzo, è tutt’altro che facile. Lo racconto qui, però, perché credo nell’importanza delle testimonianze positive (non necessariamente belle) per “risvegliare” gli animi - spesso assopiti - di tutti (me compresa). Vi racconto che il primo pensiero affiorato nella mia testa è andato subito a coloro che fanno parte della mia vita, perché mai avrei voluto dar loro questo enorme dispiacere; in fondo, anche se la paura della morte c’è, e farei peccato a negarlo, penso che sia più facile morire. Il “dramma” è di chi resta e deve fare i conti con l’assenza. Ecco perché rimango ancorata, seppur nella mia debolissima e “immatura” fede, alla speranza. Una speranza che vince la morte. E allora, come trasformare il dispiacere che a volte sento in gioia per i giorni che mi è concesso vivere? Decidendo che la malattia esiste e va accettata e sconfitta con tutti i metodi messi a disposizione dalla scienza, ma che io non sono la malattia. Da qui la decisione di investire di più nel mio lavoro, finché le forze me lo permettono, e rispettando i nuovi ritmi del mio corpo: la voglia di aprire il cassetto dei sogni - e anche quello delle paure - per mettermi in gioco, anche nelle relazioni. E la malattia mi sta mostrando da quante belle persone io sia circondata. La solidarietà è potentissima. Questo mi riempie di GIOIA e io non posso che cercare di restituirla al mondo che mi circonda. Lo devo a mio marito, insostituibile sostegno, ai miei bimbi, alla mia preziosissima famiglia (genitori e suoceri) che ogni giorno si prendono cura di me, permettendomi di dedicarmi a me stessa in tranquillità: dall’andare in ufficio al sottopormi alle terapie. All’alba della diagnosi ho trovato conforto dai padri Oblati della Madonna del Bosco di Imbersago (Lecco) e uno di loro mi ha donato una semplice, bella e potente frase che vorrei donare a voi affinché sappiate che non siete mai soli. “Dio mi ama e avrà cura di me”.
Valentina
Stare di fronte allo smarrimento, attraversarlo e poi farne racconto. Ecco, credo che posso riassumere in questa frase il periodo dalla scoperta della malattia di mia moglie a oggi. Scrivo per essere testimone che nel dolore e nella malattia ci può essere luce. Scrivo per fare memoria, non solo per voi che leggete, ma anche per me. Il racconto ci aiuta a capire, a conoscerci e ri-conoscerci. Solo così l’esperienza diventa tale, altrimenti resta un mero “esperimento”: qualcosa che accade, ma che non coinvolge e non ci cambia. Semplicemente “passa”. Smarrimento. Non c’è parola più vera che possa racchiudere quello che provavo all’inizio. Smarrimento in ciò che facevo nel quotidiano, smarrimento nelle varie visite di mia moglie all’ospedale, smarrimento nella fede. Ho toccato e sperimentato per la prima volta un rapporto conflittuale con Dio. “Dio mio, Dio mio, perché ci hai abbandonato?”: questa domanda riecheggiava nel mio cuore e nella mia mente insieme a tanta rabbia nella preghiera, fino a imprecazioni e senso di abbandono che mi avvolgevano. In tutto questo buio esistenziale c’era un luogo di ristoro per il mio cuore: il santuario della Madonna del Bosco. Lì ho sentito la presenza autentica della madre di tutti noi Cristiani: Maria. Fede e Speranza hanno superato la rabbia e l’angoscia. Vissuto e attraversato lo smarrimento, ho iniziato a vivere in modo autentico la “tempesta”. Nei momenti difficili dobbiamo avere il coraggio di staccare dal lavoro quotidiano, di dedicarci alla famiglia, di passare del tempo con le persone a cui vogliamo bene e di riuscire a ritagliarci del tempo per ciò che amiamo. Ho sperimentato la forza d’animo di mia moglie Valentina, leonessa dal cuore gentile e mamma e moglie sempre presente e forte, anche nella malattia. Infine, ho fatto esperienza della bellezza di essere parte della Chiesa, una realtà viva.
Nicolò
La Redazione