Un tavolo ben apparecchiato: per ciascuna una ciotola di sale con all’interno un piccolo vaso di ceramica. Poi scotch di carta, una matita, un pennello, una colla bifasica, stecche di legno, polvere dorata, perline. Una piccola lampada da tavolo per ognuna. Musica soffusa. Il laboratorio ha inizio. Sono sei le ragazze presenti, tutte adolescenti. Ciascuna viene invitata a scrivere su un foglietto una ferita sperimentata. Non sarà condivisa. Verrà posizionata con una molletta su un pannello di mongolfiere. Quindi ognuna viene invitata a rompere il proprio vaso, recuperare le parti e numerarle con pezzetti di carta adesiva. Si prova a ricomporre il tutto, aiutandosi esternamente con lo scotch di carta. Si fotografa il vaso.
Le ragazze iniziano a valutare: alcuni pezzi sono talmente piccoli che bisogna lasciarli andare. Si procede quindi a togliere lo scotch, lasciando solo quello con le parti numerate e si inizia a ricomporlo pezzo per pezzo, avendo in mente il progetto finale. Una piccola parte di colla bicomponente viene stesa su un pezzetto di carta. Si aggiunge un pizzico di polvere oro o argento da amalgamare per almeno due minuti. Poi il composto si stende con una stecca di legno sulla prima parte del vaso e si incolla alla seconda, tenendo le due parti ben a contatto per 5 minuti: bisogna solo attendere, senza fare altro.
Gradualmente il vaso riprende forma. Ma c’è di più: alcune scelgono di aggiungere piccole pietre nei punti di frattura per farli risaltare ulteriormente, lasciare parti vuote, aggiungere polverine o dettagli di altro colore. Si va oltre l’idea originale. Qualcosa di altro inizia a prendere forma. Al termine della lavorazione, quando la colla si è asciugata, si passa un pennellino con polvere dorata sulle giunture per renderle più luminose. Con l’acetone si pulisce la ceramica per lucidarla ed eliminare eventuali colature o togliere con il taglierino dorature in eccesso.
Il laboratorio utilizza la tecnica del kintsugi, l’arte di “riparare con l’oro”, una modalità di restauro ideata alle fine del 1.400 da ceramisti giapponesi. L’esperienza riconsegna alle ragazze presenti alcune domande importanti. «Ciascuno arriva con le proprie» racconta Valentina Gagliardi, psicologa psicoterapeuta e formatrice: «Troviamo quello che cerchiamo. Il resto non serve. L’esperienza riconsegna più domande che risposte. Quella più profonda forse ha a che vedere con la possibilità di sbagliare».
Il progetto, proposto in diverse città e realtà anche ecclesiali a supporto di criticità riscontrate, affonda le sue radici in alcune esperienze professionali e personali. «Ho toccato con mano quanto possano essere profonde e dolorose alcune ferite e allo stesso tempo quanto ampio sia lo spazio di crescita possibile intorno a esse - continua Valentina - Di fronte a vissuti emotivi molto intensi ho scoperto che la manualità abbinata alla creatività era un prezioso antistress, capace di generare benessere. Praticare il kintsugi è un sollievo, una pausa dalla frenesia e un momento di grande creatività. Il laboratorio è un modo per rendere utile il dolore, visto e vissuto». L’esperienza è adatta a tutti. «In particolare a chi ha delle ferite, ma forse è più corretto dire a chiunque abbia il desiderio di esplorarsi con gentilezza, senza giudizio e abbia il desiderio, pur non riuscendo, di guardare alle proprie ferite da una nuova ottica: genitori, adolescenti, coppie, madri e figli, famiglie complete che scelgono magari di realizzare un unico pezzo restaurato».
«Il laboratorio mi ha riconsegnato il valore della lentezza in mezzo alla frenesia quotidiana» racconta Clara, insegnante e mamma di 2 adolescenti. «Ritrovare il senso profondo della vita, la sua bellezza e la sua sacralità richiede un tempo di qualità». «Uno spazio di condivisione con altre persone in cammino, alla ricerca di un sé più autentico» aggiunge Laura, libero professionista, 4 figli. Per Carmela, 50 anni, «un momento illuminante su aspetti che non avevo mai considerato». Maria, 15 anni, ha ultimato da poco l’esperienza: «un tempo pacificante, che richiede tanta pazienza». Lo conferma Chiara, sua coetanea: «la ferita si scrive, si mette da parte e poi si prova a ricomporla. Non si dimentica. Si valorizza».
È una forma di crescita post traumatica. «Nel trauma c’è la possibilità di riprendersi e tirare fuori risorse che la persona non pensava di avere» spiega la Gagliardi. «Sono ore di sollievo, di riconnessione con se stessi nel breve periodo. Nel lungo invece le persone scoprono qualcosa: di sé, della propria ferita, attraverso anche le risonanze degli altri che vivono insieme il laboratorio. Uno sguardo nuovo o almeno uno spazio dedicato, che può donare soddisfazione in ciò che si compie, indipendentemente dall’esito, e una totale immersione nel momento: per certi versi, potremmo dire, una sorta di preghiera».
Laura Galimberti

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